Il seguente articolo contiene SPOILER su Dostojevski dei fratelli D’Innocenzo.
L’identità visiva e narrativa dei fratelli D’Innocenzo non è certo nazional popolare (e non vuole esserlo), e con Dostojevski, la loro prima serie tv per Sky, questa caratteristica trova conferma definitiva. La miniserie in sei episodi – che trovate qui in streaming – è un racconto cupo, intenso e profondamente umano, capace di scavare nell’abisso dell’animo e di affrontare tematiche complesse e controverse. Al centro della storia c’è un poliziotto solitario, segnato da un passato scabroso, la cui vita prende una piega inaspettata. Questi trova un nemico – che a volte vale più di un amico – che paradossalmente diventa la sua ragione di sopravvivenza. Questo rapporto ambiguo e tormentato costituisce il cuore pulsante della serie e delinea un affresco narrativo che intreccia il noir con una profonda riflessione sulla condizione umana. Ambientata nella decadenza della periferia italiana, la serie si distingue per il suo approccio viscerale e poetico alla narrazione. La scelta dell’ambientazione non è casuale: la periferia diventa un personaggio a sé stante, un luogo in cui i protagonisti si muovono in cerca di brandelli di redenzione.
In Dostojevski tutto ciò che non si può vedere ha un senso
Per quanto si tratti di un’opera visivamente forte e che fa della forma il proprio biglietto da visita, Dostojevski parla più per immagini mentali. Tutto è chiaro ma nulla è evidente o superficiale. Un killer che uccide ma di cui non si vedono le vittime, se non negli scatti rubati della scientifica. Un caso di cronaca nazionale di cui non si sente quasi mai parlare, se non tra i fatiscenti corridoi di una centrale di polizia. Per gran parte della serie si potrebbe credere che Dostojevski non esista affatto, che sia solo una proiezione mentale del protagonista. Quest’ultimo, Enzo Vitello, interpretato da un grandioso – perché altri termini sarebbero riduttivi – Filippo Timi, è un uomo in balia degli eventi. Vittima della propria malattia mentale: autentico colpo di scena da cui paradossalmente comincia a sbocciare la sua umanità. Vitello compie un viaggio che non lo trasforma.
Piuttosto, gli fa aprire gli occhi. Lo fa arrendere a una realtà che aveva soltanto immaginato e a cui nessun altro potrebbe credere. Vitello è un uomo che con la disperazione ci ha combattuto per una vita intera e che, ormai, non ha niente da perdere. Nel dipingere la sua anima i fratelli D’Innocenzo si sono sbizzarriti con l’immaginario che li contraddistingue e che oggi, in Italia, non è per tutti. La depressione e la conseguente esasperazione dell’uomo è un concetto che non dovrebbe sottostare a rigidità visive di alcun tipo, e loro ce lo ricordano fin dalla prima scena. Il pubblico conosce Enzo Vitello nella sua squallida quotidianità, mentre lotta con il (probabilmente) ennesimo tentativo di farla finita. Ma se c’è qualcosa che attira un uomo finito – tanto quanto chi del pubblico ha apprezzato la mera visione dello squallore – è proprio la morte.
La sua morte, Enzo Vitello, deve averla immaginata e sognata più volte. Ma quella degli altri lo ha attratto talmente tanto da mantenerlo in vita
Come dicevamo, Enzo Vitello compie un viaggio che non lo trasforma. Lo incuriosisce, lo attrae a tal punto da intrappolarlo nella sua stessa oscurità. Vitello aveva già deciso di morire, chissà quanto tempo prima di incontrare Dostojevski. Ma il destino ha voluto dargli un’ultima occasione prima di sparire per sempre. Vitello si muove tra le campagne della periferia di provincia, il cui senso di decadenza è amplificato dal Super 16 mm, che è un biglietto da visita immediato per lo spettatore. I D’Innocenzo, rispetto per esempio a America Latina (di cui trovate qui la nostra recensione), vogliono mettere subito le cose in chiaro. Dostojevski è un’opera repellente, in grado però di attrarre in modo ossessivo chi è predisposto a questo tipo di visione. Così come il suo protagonista. Tutti vogliono liberarsi di Dostojevski meno che lui, che invece lo considera quasi parte di sé.
Il killer, come le sue vittime, non si vede mai. È un orrore narrato, quasi mai mostrato, ed è questo a renderlo ancora più vero. O meglio, l’orrore sta tutto nel contorno: nei gesti e nello stile di vita tendente al grottesco dei personaggi. Tutti sono caratterizzati da un inquietante distacco nei confronti della vita. Tutti meno che uno, in un certo senso: Antonio Bonomolo. Questi, interpretato da un brillante Federico Vanni, è la nota pulp della serie: una quota dark comedy insolita ma molto gradita. E’ forse l’unico a voler davvero arrivare fino in fondo alla questione nel senso più nobile del termine, ma nel parlarne non di discosta dal senso di decadenza che permea la serie. “Puzziamo di male da cima a fondo, Enzo. Fumiamo di male. E merda. Voglio trovare Dostojevski per togliermi di dosso il puzzo.” E mentre pronuncia queste parole non si rende conto dell’elefante nella stanza.
Enzo Vitello, alla fine del viaggio, non si prende alcun merito e preferisce scomparire nel nulla e fingere di essere un martire
In questa vita ha sicuramente fallito, ma forse fuggire non è stato il suo più grande errore. D’altronde fino a quel momento era l’unica cosa che gli era riuscita davvero. L’incontro con Dostojevski è stato soltanto il culmine di un percorso molto più ampio e che gli aveva fornito le risposte che cercava. Il rapporto con sua figlia Ambra non è mai stato il suo interesse principale, e nell’ammettere la propria fragilità ha anche compreso che non poteva farsene una colpa. Tutto quel dolore era invece rivolto alla sua stessa vita. Tra tutte quelle pillole e droghe sintetiche ingerite, l’unica assuefazione funzionale l’ha trovata nelle lettere di Dostojevski. Per quale motivo avrebbe dovuto odiarlo, in fin dei conti? Parliamo di un uomo che comunque è riuscito a convivere con l’abbandono di una figlia e la consapevolezza delle condizioni di vita estreme di quest’ultima. Più che una soluzione, Vitello ha sempre cercato una scappatoia.
La rincorsa a Dostojevski non aveva alcun fine se non quello di mettere a tacere i suoi demoni interiori. Enzo Vitello aveva solo bisogno di guardarsi allo specchio e di non odiarsi più fino in fondo. Un martire che ha paura di morire forse non è un martire, ma certamente è un essere umano, e a Vitello questo bastava. Ha avuto la forza di cambiare direzione e di tuffarsi in una rincorsa senza scrupoli, con l’unico obiettivo possibile da raggiungere a ogni costo: arrendersi alla decadenza. Arrendersi alla vita.