Si fa presto a parlare di Dragon Ball. Dragon Ball, la saga. Dragon Ball, il ricordo collettivo di intere generazioni che si raccoglievano davanti alla tv per accompagnare il pranzo con le straordinarie avventure di Goku e dei suoi compagni. Si fa presto, e ancora oggi la connessione emotiva con l’anime creato da Akira Toriyama è palpabile. Ogni volta che si parla di Dragon Ball, diventa inevitabile interagire intensamente con chiunque abbia condiviso l’esperienza negli anni a cavallo tra l’infanzia e l’adolescenza. Dragon Ball, allora, non è solo un pezzo importante del nostro passato: è il segno di un’avventura che oggi non potremmo vivere più. Non così, almeno.
Sì, chiaro: al di là dei cicli di programmazione, è ancora piuttosto probabile imbattersi in Dragon Ball se ci si collega con alcuni tra i principali canali Mediaset. Lo streaming, poi, sta regalando l’ennesima vita a un prodotto ormai immortale. La serie, infatti, è attualmente disponibile su Prime Video, e fin dalle prime settimane ha raccolto dei numeri davvero importanti. Ma allora perché non potremmo viverlo più? Perché c’è sfuggito di mano un fattore fondamentale: il tempo. Dragon Ball sta sempre là, uguale a se stessa. Noi, però, siamo cambiati almeno quanto le generazioni più giovani lo sono rispetto a noi nello stesso periodo. E con noi, è cambiato il mondo stesso. Dragon Ball, oggi, sarebbe completamente diversa.
Spieghiamoci meglio, prima di dar vita a equivoci: questo non intende essere un articolo nostalgico, se non di riflesso.
Il punto è un altro: vogliamo concentrare l’attenzione sull’importanza capitale della tipologia di programmazione televisiva attraverso la quale abbiamo vissuto la nostra storia d’amore con Dragon Ball.
Iniziamo, quindi, da una domanda: da quante puntate pensate sia composta, per esempio, Dragon Ball Z? La risposta potrebbe sorprendervi: 291. Non pochi, per carità, ma con ogni probabilità meno di quanti avreste potuto ipotizzarne. Renderemo ancora meglio l’idea con un secondo dato: la saga di Freezer si sviluppa nell’arco di “soli” 72 episodi. Ok, ci siamo: è esattamente qui che vogliamo andare a parare. 72 episodi da 20 minuti, oggi, rischiano di scorrere via in una manciata di giorni. A seconda del ritmo di binge watching, anche in un tempo molto ristretto, tra i 10 e i 15 giorni. E in tv? In tv pareva non terminare mai. Freezer sembrava albergare nei nostri peggiori incubi da sempre, e la saga aveva ormai assunto i contorni di una vera e propria odissea.
A conti fatti, ha giocato un ruolo importante la percezione del tempo che ci caratterizza in giovane età. Scorre più lentamente, facendo dei 72 giorni necessari per completare la visione un’esperienza immersiva molto più lunga di quanto sarebbe oggi.
Manco ci avessero chiuso dentro una stanza dello Spirito e del Tempo, il tempo si dilatava all’interno delle cucine dei nostri genitori, i 20 minuti diventavano 200 e non immaginavamo più le nostre giornate private della minaccia costante di Freezer.
Parallelamente, la programmazione pomeridiana di Italia Uno era a sua volta un fattore: Dragon Ball, infatti, andava in onda per cinque giorni alla settimana, non sette. Un episodio al giorno, dal lunedì al venerdì. Insomma, per accompagnare Freezer dal suo avvento alla sua iconica uccisione, servivano tre mesi circa. Tre mesi che diventavano tre anni, per i tempi percepiti di un ragazzino. Citiamo Freezer, ma potremmo dire altrettanto a proposito di Cell, Majin Bu e tutti i grandi villain della saga. Ed è questo ad aver segnato per sempre quel tipo di esperienza totalizzante, affine a tante altre vissute – quanto tempo ci voleva affinché un tiro in porta di Oliver Hutton arrivasse a meta, per dire? – e oggi impraticabile.
Certo, siamo cresciuti. Certo, siamo oggi abituati ad approcciarci a prodotti del genere con un mood completamente diverso. Ma è la programmazione ad aver plasmato – più di tutto il resto – il nostro legame inscindibile con Dragon Ball e con le serie della nostra formazione. I giorni diventavano mesi, i mesi diventavano anni, gli anni diventavano vite intere. Qui sì, un pizzico di nostalgia ci assale: in un mondo in cui abbiamo smarrito totalmente il senso dell’attesa e il piacere che ne deriva, ci ritroviamo a sbranare una serie dopo l’altra, manco fossimo in un fast food mentre assaliamo un povero cheeseburger. La programmazione settimanale, ancora dominante dopo aver vissuto una fase in cui sembrava che il modello Netflix potesse fagocitare tutto il resto, è mal sopportata da buona parte del pubblico. Ora vogliamo tutto e subito, punto.
Vogliamo ancora Dragon Ball, ma la vogliamo con una frenesia che svilisce la natura dell’esperienza emotiva tratta in passato.
La saga di Freezer? Oggi durerebbe pochissimo, portandoci a viverlo privati dell’intensità necessaria. Parallelamente, sarebbe interessante invertire i fattori e immaginare per un attimo che fine farebbero le numerose serie tv dall’alto potenziale che si sono schiantate contro un muro nell’ultimo periodo: avrebbero fatto la stessa fine, se avessero assunto una centralità diversa nelle nostre giornate, per un tempo più dilatato e con una soglia di pazienza e di concentrazione oggi impensabili? Con ogni probabilità, molti avrebbero percorso una traiettoria differente.
Lo chiariamo: affermando ciò, non intendiamo sminuire in alcun modo lo straordinario lavoro fatto da Akira Toriyama e dal suo staff nel corso degli anni. Dragon Ball ha scritto una pagina fondamentale della televisione degli ultimi quarant’anni. E l’ha fatto con modalità narrative a cui il pubblico italiano non era granché abituato: se da un lato persiste la logica binaria dei buoni e dei cattivi, degli eroi e dei villain, dall’altra abbiamo imparato ad amare un concetto di antieroe a cui oggi non potremmo mai rinunciare e che al tempo risultava essere persino avveniristico. Dragon Ball è invecchiata benissimo, e conserva dopo decenni una discreta “attualità”. La bontà del prodotto è sempre valida e non subisce stucchevoli revisionismi né insopportabili tendenze alla lettura del passato con gli stilemi da noi acquisiti, ma tutto ciò non sarebbe bastato oggi per scrivere un capitolo storico.
Insomma, i meriti di Dragon Ball si ritrovano ancora nella stessa misura. Questa riflessione intende porsi un obiettivo, su tutti: riprendere in mano il tempo.
Goderci i singoli momenti, valorizzando la lentezza e la tendenza a scandirlo anche secondo le modalità attraverso cui il prodotto di turno era stato pensato. Lo sappiamo: è un obiettivo pressoché impossibile. Con ogni probabilità, molti di voi si sono sentiti un po’ più vuoti nel momento in cui si è concluso il rewatch di Dragon Ball in pochissimo tempo e non si sono rivissuti i picchi emotivi del passato. Ma era necessario provarci. Ripensare a Dragon Ball con gli occhi di un bambino che non ha fretta, e si avventura in un mondo ignoto con la prospettiva di chi vuole sognare un po’ anche quando si ritrova nel bel mezzo di un incubo.
Perché è vero: la narrazione dei bei tempi andati cela sempre una componente retorica che poco ha a che vedere con l’oggettiva realtà dei fatti, ma è altrettanto valida l’idea che il nostro rapporto con la narrativa sia ormai molto più superficiale e destinato al mero intrattenimento fugace. Di fronte a tutto ciò, vivremo le Dragon Ball del presente e del futuro con gli occhi di chi troverà tutto un po’ più banale e noioso, distante da noi. E finiremo ogni cosa in un battito di ciglia, senza manco renderci conto di dove siamo finiti. Le nostre vite non cambieranno, ma saremo comunque un po’ meno completi. In fondo, abbiamo bisogno come non mai di storie del genere. Da vivere, possibilmente, coi giusti ritmi.
Antonio Casu