ATTENZIONE: L’ARTICOLO CONTIENE SPOILER SULLA NONA STAGIONE DI E.R.
Nella lunga storia di E.R. Medici in prima linea abbiamo imparato che esistono tantissimi modi per morire, così come ne esistono altrettanti per guarire. Che accanto a momenti di sconforto e di disperazione, ci sono anche quelli di speranza e di gioia, e che per poter andare avanti in modo equilibrato, bisogna accettare tutto ciò che la vita ci riserva. Abbiamo visto dottori ai quali eravamo affezionati andarsene per le motivazioni più disparate. E abbiamo accolto con curiosità i nuovi arrivati, innamorandoci in poco tempo di un personaggio proprio com’era accaduto con quelli precedenti.
Abbiamo assistito alla danza infinita tra pronto soccorso e chirurgia, due amanti che si vogliono bene, che a volte bisticciano e si tengono il muso, ma che non potrebbero esistere l’uno senza l’altro. E abbiamo visto turni di giorno alternarsi a quelli di notte, chiamati ironicamente dal personale dell’Emergency Room “turni cimitero”, per ovvie ragioni. Il buio portato dalle ore notturne di solito è strettamente connesso ai casi più tristi e angoscianti, e anche l’umore dei medici e degli infermieri che lavorano in queste rotazioni è più malinconico e traballante.
Durante le quindici stagioni di E.R., abbiamo seguito con coinvolgimento i quindici finali di ognuna, e atteso con impazienza i quindici inizi di quella successiva. E dopo tanti rewatch e riflessioni ci siamo resi conto che il tema del dualismo e della sua ciclicità è sempre stato presente all’interno degli episodi di questa splendida serie tv. Che ogni situazione aveva anche il suo contrario e che ogni personaggio si incastrava alla perfezione con un altro (un esempio è rappresentato da Carter e Benton, dei quali potete leggere qui).
Nessun finale però è riuscito a esprimere così apertamente tutti questi concetti quanto le ultime due puntate della nona stagione. Non è un caso infatti che l’episodio numero 21 sia stato intitolato Eclissi (When night meets day nella versione americana), a cui segue Kisangani, interamente ambientato in Congo. Succedono così tante cose emozionanti e significative in questi 90 minuti di girato! Il fenomeno astronomico diventa l’espediente simbolico per raccontare le vicende dei due protagonisti, il Dr. John Carter (Noah Wyle) e il Dr. Greg Pratt (Mekhi Phifer), impegnati rispettivamente e specularmente in un turno diurno e in uno notturno. Ventiquattro ore esatte.
La puntata così si sdoppia e insieme all’incredibile montaggio che alterna i due medici, diventa un viaggio nella luce e nell’oscurità. Dal giorno si passa alla notte e poi di nuovo al giorno, fino ai minuti dell’Eclissi, in cui il buio si sovrappone alla luce e il nostro Sole muore, anche se solo per poco tempo. È in questi istanti che una suora buddista, paziente di Carter, lascia la vita terrena a causa di un cancro polmonare, assistita dal dottore e circondata dai monaci che recitano un mantra. La litania accompagna le sequenze successive, facendo da sfondo a diversi avvenimenti.
Vediamo Abby e Pratt muniti di torcia alla ricerca di un neonato abbandonato in un vicolo vicino al Policlinico. Le dottoresse Weaver e Chen, all’esterno del pronto soccorso, mentre provano a salvare un operaio rimasto ferito durante i lavori di rinnovamento dell’ospedale (e sì: nelle stagioni successive il triage a cui eravamo abituati non sarà più lo stesso). Persino Doc Magoo, la tavola calda che ha dato ristoro allo staff medico per tanti anni, viene distrutta a causa di un incendio durante queste ventiquattro ore in cui tutto muore e si rigenera.
E poi c’è il Dr. Romano. Questo personaggio così discusso, amato e mal sopportato in egual misura da noi spettatori di E.R. per la sua brutale sincerità, l’ironia spinta e spesso offensiva, il suo cinismo che non perdona. Ma quanto ci è dispiaciuto all’inizio della nona stagione vederlo perdere il braccio in un incidente con un elicottero? Il chirurgo più bravo del Policlinico che resta privo di un arto mentre sta svolgendo il suo lavoro. Il suo dramma ha inizio proprio al principio di questa stagione e si chiude con la sua fine. È un cerchio perfetto.
È infatti nel corso dell’episodio 21 che Romano decide definitivamente di farsi amputare il braccio naturale, che era stato ripristinato ma che stava diventando sempre più estraneo al suo proprietario. Non aveva più sensibilità. E accanto al chirurgo durante la delicata operazione c’è lei: la dottoressa Corday, l’unica degna di rispetto agli occhi di Romano. L’unica per la quale ha mostrato di provare dei sentimenti (non ricambiati) che vengono dichiarati proprio qui. Quel “Ti amo, Lizzy”, mentre si risveglia nel letto poco dopo l’intervento.
Nel frattempo l’Eclissi è terminata. Nel turno di Carter la luce sta ricomparendo, mentre in quello di Pratt il neonato viene trovato. Il ciclo vitale è ritornato al punto zero. L’esistenza della suora, non più presente nella realtà tangibile, si è trasferita in quella del corpicino appena nato del bambino abbandonato. Uno strano modo di venire al mondo, ma come ci ricorda il Dr. Pratt guardando quel piccolo fagottino: “Dopo, la vita può solo migliorare”.
Il dualismo di questo episodio di E.R. non è presente solo nelle vicende dei due protagonisti, ma è radicato anche all’interno dei loro rispettivi caratteri. Noi fan lo sappiamo: Carter e Pratt sono davvero agli antipodi. Il giorno e la notte, per rimanere in tema. L’approccio che hanno nei confronti dei pazienti e del loro lavoro non potrebbe essere più diverso, ma il cocciuto e risoluto Greg diventerà il perfetto erede di John alla guida del pronto soccorso. È un po’ presuntuoso, è vero, ma è anche un inguaribile ottimista. Una persona pratica e piena di grinta, capace di tenere alto il morale dello staff nei momenti più difficili. Un leader naturale.
E mai come in questa puntata i due si rivelano. Persino i dialoghi, così come avvenuto per il montaggio, vengono spezzati e ricomposti, da uno all’altro. Per Carter una ragazza quasi annegata non sarebbe riuscita a sopravvivere, per Pratt sì. Il primo riesce a salvare un adolescente vittima di una sparatoria, il quale però muore durante il turno di Greg. I due medici sono collegati, come il Sole e la Luna. Si attraggono e si respingono, litigano ma si rispettano, e così sarà sempre.
Ma questa non è la fine. È l’inizio. L’ultimo episodio della stagione 9 di E.R. introduce un filone narrativo che verrà poi largamente sviluppato nella decima e che per alcuni personaggi sarà fondamentale: l’Africa. Le puntate ambientate in Congo sono un piccolo capolavoro di idee e di intenti. Si esce dallo spazio a volte claustrofobico del pronto soccorso per respirare l’aria calda, umida e polverosa di un altro continente. Il Dr. Luka Kovac perderà quasi la vita in quei territori (ne abbiamo parlato qui) e il Dr. Carter troverà l’amore con la A maiuscola. Ma viene anche mostrato un mondo che noi occidentali ignoriamo, in cui le malattie più banali sono mortali. In cui la guerra civile non ha mai fine, non per caso ma per scelta. Se non si muore per natura, si viene uccisi. È questo lo scenario in cui si ritrovano Kovac e Carter.
Ma nonostante la precarietà delle giornate trascorse in Congo, per John sarà un ritorno alla vita. Anche lui riparte dal punto zero, come il Dr. Romano, dopo un periodo di crisi profonda. Ha da poco perso la nonna che lo ha cresciuto e ha quasi chiuso la relazione con Abby. Nella stagione 8 di E.R. il suo maestro, Benton, aveva lasciato l’ospedale e prima ancora John era stato tossicodipendente e aveva trascorso diversi mesi in riabilitazione. Carter si era perso, in tutto e per tutto, ma in Africa si ritrova. Il suo ciclo si completa.
E Luka? Il medico croato era fuggito da Chicago per motivi simili a quelli di John. Era inoltre stufo dell’ipocrisia del sistema sanitario americano e delle regole di una burocrazia rigida e miope. Aveva bisogno di umanità, di calore e di nuovi obiettivi. Il suo personaggio si muove esattamente all’inverso rispetto a quello di Carter. Dopo aver quasi perso la vita, Kovac viene riportato negli Stati Uniti e in Africa non tornerà mai più. Ci spedirà l’indisciplinato Pratt invece, come una sorta di castigo (avevamo forse dei dubbi?). Ma questa è un’altra storia.
Nascita e morte. Luce e oscurità. Sole e Luna. Giorno e notte. Speranza e disincanto. Perdersi e ritrovarsi. America e Africa. Questi due episodi conclusivi portano con sé magia, catarsi, equilibrio tra opposti, accettazione della ciclicità della vita, e ci accompagnano inevitabilmente per mano verso la stagione 10. Rappresentano l’essenza di E.R., il riepilogo dei motivi per i quali amiamo tanto la serie. E questo finale non ha nulla da invidiare a quelli delle stagioni precedenti, considerati dal pubblico di qualità superiore. Del resto è sempre il nostro adorato Pratt a riassumere per noi le sensazioni che si provano ogni dannata volta dentro a quel dannato pronto soccorso: “questo posto è come una droga”. Già…potremo un giorno farne a meno?