E se devo essere onesta, non è stato nemmeno così difficile come potreste pensare.
Sì, dobbiamo ammetterlo, Emily in Paris ha tutti gli elementi per essere la classica commedia romantica, simpatica e non troppo impegnativa (rassicurante per la sua prevedibilità): la dolce e carina ragazza americana si ritrova per un colpo di fortuna catapultata tra le vie della città dell’amore. A sua disposizione da subito, un grazioso appartamento con una vista mozzafiato su Parigi e un bocconcino francese niente male al piano di sotto.
Emily Cooper (Lily Collins) inizia questa sua avventura nell’ambiente parigino, senza capire una parola della lingua, completamente sola (perché il suo non-così-perfetto fidanzato la molla già dal secondo episodio) e con capo e un’equipe di lavoro che senza un minimo di tatto o di comprensione non perde occasione per farla sentire inadeguata. Nonostante queste prime difficoltà, la nostra protagonista manterrà il suo sorriso e il suo atteggiamento ottimista quasi durante tutti i dieci episodi. In questa maniera, riuscirà a modo suo, a farsi strada tra i cuori dei vari personaggi -così come degli spettatori del serial- e per di più lo farà anche con un certo stile; tanto che per il lancio della seconda stagione, Netflix ha aperto una boutique virtuale con i look che hanno contribuito a creare l’icona della Cooper. Insomma, sembrerebbe proprio una versione moderna di una favola disneyana.
Eppure, non bisogna dimenticare che dietro ogni favola -anche quella più frivola e banale- si nasconde una morale, un messaggio che trasmette valori e insegnamenti, e che la maggior parte delle volte si nasconde sotto la superficie. È il caso di Emily in Paris.
Per provare a comprendere meglio il concetto, proviamo a fare insieme un re-watch di alcune delle scene (o degli episodi) più profondi della prima stagione.
Emily in Paris – Stagione uno, pilot
Nel primo episodio della prima stagione, Emily è seduta ad un café con il suo collega Luc (quel tipo alto, un po’ buffo con i capelli da scienziato pazzo) a parlare di come il suo “fresco punto di vista americano” non sia visto di buon occhio agli uffici Savoir e di come più in generale l’atteggiamento stacanovista americano non coincida con lo stile di vita francese dedicato alla venerazione del lusso e del piacere.
“Voi vivete per lavorare. Noi lavoriamo per vivere.”
così sostiene la sua tesi Luc (Bruno Gouery) per poi allibirsi davanti alla risposta della collega, secondo la quale lavorare e sentirsi realizzata la rendono felice. Questo semplice dialogo, che ruba meno di un minuto all’intera puntata è lo spunto per una riflessione più grande su cosa sia effettivamente la felicità. È possibile che esistano diversi modi di essere felici? Che la felicità possa venire dai grandi amori trionfali, ma anche da una semplice sigaretta e un bicchiere di vino assaporato nel posto giusto e al momento giusto? È possibile che la felicità sia nell’eccesso dei piaceri carnali; nel cibo, nel vino, nel sesso, ma anche nella moderazione, nell’equilibrio, nelle piccole soddisfazioni di ogni giorno?
Stiamo parlando di una disputa che ha origine ai tempi della filosofia di Epicuro e di Aristotele e che va avanti trascendendo il tempo e lo spazio, senza trovare risposta.
Questa è roba profonda, gente. Ma andiamo avanti.
Stagione uno, episodio tre “Sexy or Sexist”
Emily ha una discussione con Antoine Lambert (William Abadie), un uomo -potremmo dire- elegantemente francese che produce il marchio di profumi De l’Heure e che sta lavorando con Savoir per una campagna marketing che attiri anche il pubblico femminile degli States.
Antoine invita Emily e i suoi colleghi a guardare il suo nuovo spot pubblicitario ed è affascinato dall’americana, che esprime le sue convinzioni sul fatto che lo spot sia sessista. Quest’ultimo dovrebbe rappresentare secondo Antoine il sogno di ogni donna – francese, americana o meno- di essere desiderata dagli uomini come obiettivo principale della sua esistenza, mentre cammina nuda su un ponte, vestita solo dal profumo del marchio. Emily non è d’accordo su questa idea e fa del suo meglio per trovare una soluzione che soddisfi il suo cliente senza andare contro i suoi ideali femministi. Questa anche è un lotta vecchia come la televisione stessa. In un articolo del 21 febbraio 2012 intitolato “Il sessismo nelle vecchie pubblicità” la Repubblica ha scritto:
È un dibattito infinito, quello sulla donna – e il suo corpo – visti come oggetti, negli spot così come negli show televisivi. Ma guardando questa incredibile serie di manifesti pubblicitari d’epoca (quasi tutti risalgono a 40-50 anni fa), possiamo ricordarci di quanto il sessismo sia una malattia antica.
Ciò che Emily in Paris dimostra in questa puntata è una denuncia, una risposta diretta a quanto questa affermazione sia -purtroppo- errata. Le pubblicità sessiste esistono ancora in epoca moderna, come esistevano nel passato, magari in maniera più mascherata rispetto a un tempo, ma non per questo meno offensive o meno gravi. Il percorso di decostruzione sugli stereotipi di genere è ancora dibattito dei media, come lo è il politically correct più in generale e seppur ci sono stati dei passi in avanti con l’avanzare degli anni, il traguardo non è ancora stato raggiunto.
Ancora, poi, nel sesto episodio della stessa stagione…
Mindy (Ashley Park) racconta ad Emily del suo disastroso passato in Cina che l’ha portata ad abbandonare il suo sogno di diventare una cantante e a nascondersi da occhi indiscreti nella bella e tranquilla Parigi. L’amica coerentemente con il suo allegro spirito ottimista, le ricorda che non è mai troppo tardi per una seconda opportunità e che troppo spesso viviamo una vita che non ci appartiene, soltanto per paura del fallimento.
A questa prima perla di saggezza, Mindy risponde con l’espressione francese flâneur, un altro modo per definire il nostro tanto amato -quanto criticato- “dolce far niente” (quello spiegato da Luca Argentero a Julia Roberts nel film Mangia, Prega e Ama).
Il giornalista Massimo Gerardo Carrese, parla del dolce far niente così:
un’espressione ambigua per indicare l’inattività di una persona, poiché ogni individuo valuta in modo soggettivo lo “stare in ozio”: un impiegato che torna a casa dal lavoro perde il proprio tempo guardando i programmi televisivi, il critico televisivo invece lavora su quei programmi ed elabora riflessioni sistematiche; un pensionato per oziare si dedica a lunghe passeggiate nel bosco, ma il bosco per il botanico rappresenta il luogo di studio e di ricerca[…] Ogni persona ha proprie idee, opinioni, modi su come svagarsi e adotta a seconda dei contesti o degli ambienti in cui si trova soluzioni variabili per soddisfare al meglio questa sua voglia o necessità.
Nel mondo latino, il termine otium era la cura di sé e della propria saggezza. Per il poeta Orazio, l’otium rende liberi dalle ambizioni che rincorre chi si affanna a svolgere troppe attività ed è dunque la sola via che conduce alla felicità. Insomma, ecco che ritorna la filosofia del piacere -tanto amata dai personaggi di Emily in Paris– ad insegnarci a godere della vita in ogni suo momento, un croissaint alla volta, senza troppo stress.
Una logica che si applica tanto al racconto narrativo quanto al vero e proprio prodotto televisivo, venduto al pubblico come una comedy al femminile divertente, leggera e rassicurante.
Potremmo proseguire ancora per molto, dando uno sguardo anche la seconda stagione, ma penso di aver chiarito il concetto.
Conoscete il detto: “mai giudicare un libro dalla copertina”?
Beh, oggi io vi dico: “mai giudicare una serie tv solo dalla sua categoria”. Certe volte è molto meglio trovare qualche briciolo di profondità e di saggezza in un’insalata di risate, romanticismo e outift alla moda, piuttosto che doversi sorbire un “mappazzone” (alla Bruno Barbieri) di filosofia, poetica e fisica quantistica in puntatoni da un’ora ciascuno che si digeriscono a fatica.