Dalla lontana Cina, dal lontano 2011, Empresses in the Palace arriva a ricordarci, casomai ce ne fosse bisogno, che Nietzsche ha sempre ragione. Il filosofo tedesco infatti, tra le sue massime, ce ne ha tramandata una non a tutti nota
Nella vendetta e nell’amore la donna è più barbara dell’uomo
descrivendo, oltre un secolo prima, questa serie nella maniera più lapidaria possibile.
Signore e signori, benvenuti nel period drama più allucinato e asfissiante che Netflix abbia mai inserito nel suo catalogo. Un titolo dalla trama unica e dalla storia davvero speciale.
Se alla fine del trailer avete dovuto riprendervi, come se foste caduti in uno stato di trance, beh, sappiate che non solo è normale, ma è un effetto perfettamente voluto. Ma è meglio fare un paio di passi indietro.
Il primo ci riporta nel lontano 2015. Una Netflix ancora della prima ora si accaparra i diritti di tutti i migliori prodotti seriali del mondo, che possano fare da apripista alle sue future serie originali. E nella sua febbrile ricerca finisce in Cina, dove fa una scoperta che ha del clamoroso.
Viene a sapere che nel 2011 un period drama dagli occhi a mandorla era arrivato a ottenere 2 miliardi di click online e che, esportato, aveva spopolato in tutto il sud-est asiatico.
La piattaforma se lo accaparra in un amen, lo guarda e ne rimane folgorata: bello, bellissimo, ma talmente “estremo” che bisogna crearne una versione specificatamente per il mercato occidentale. Detto fatto: dagli originari 76 episodi da 45 minuti l’uno, si passa a una versione rieditata, che è quella che abbiamo anche noi. Sei puntate, ognuna lunga quanto un film (90 minuti), ma che in realtà sembrano durare in eterno.
Ma di cosa tratta Empresses in the Palace?
Siamo nella Cina del 1722. L’imperatore Yongzheng (Chen Jianbin) è amato e rispettato, ma ha un grave problema. Infatti non riesce a fare abbastanza figli per portare avanti la dinastia imperiale. La questione viene affrontata in un modo decisamente originale: all’interno degli enormi spazi della residenza imperiale, viene creato un harem rimpolpato ogni tre anni dalle giovani donne del regno più nobili e belle. La procedura d’ingresso somiglia tantissimo a un (Se)X Factor e giudici supremi sono l’imperatore e… sua madre (!).
Lontanissima dalle beghe imperiali, troviamo poi Zhen Huan (una incantevole Sun Li, tra le attrici cinesi più note e premiate al mondo), figlia di uno dei funzionari più fedeli all’imperatore. La ragazza ci viene presentata in maniera originale: le sue prime parole, infatti, sono le suppliche alla divinità. Vuole semplicemente trovare un uomo che la ami e vivere in pace, senza desideri di onori ulteriori.
Peccato che il destino non sia affatto dello stesso avviso. Zhen Huan riceve la convocazione dell’imperatore: le porte dell’harem sono pronte a spalancarsi al suo cospetto.
Va da sè che, essendo “aggiornato” ogni tre anni, l’harem costituisca una piramide di cariche e onori senza soluzione di continuità. Per fortuna la consorte imperiale ci viene in aiuto con un breve schemino.
L’imperatore Yongzheng può quindi godere di: una consorte nobile imperiale; due consorti nobili; quattro consorti; sei concubine imperiali!
Ognuna di queste con la propria familia, l’insieme delle persone al loro esclusivo servizio, formate da eunuchi e ancelle. In un luogo aperto e chiuso contemporaneamente (l’harem è enorme e pieno di giardini e palazzi, ma di fatto è una prigione dorata per chiunque ci viva), divamperanno battaglie senza esclusione di colpi per quello che è l’unico, grande obiettivo di tutte le donne dell’harem: diventare la preferita dell’imperatore e la madre dei futuri principi imperiali.
Anche l’inizialmente pura Zhen Huan dovrà imparare ben presto a difendersi e attaccare, in un mondo che ha regole, soprattutto viste da noi occidentali, assolutamente stranianti.
La prima è uno stranissimo rovesciamento della concezione del potere con cui siamo abituati ad avere a che fare.
Nel nostro mondo occidentale, il potere ha dei simboli: scettri, corone o più prosaicamente distintivi, anche armi, da un certo punto di vista. In Empresses in The Palace, invece, sono i simboli che hanno il potere. Ogni personaggio, imperatore compreso, deve conformarsi a tutta una serie di riti (nelle parole e nelle azioni) senza i quali le sue azioni non avranno efficacia, o saranno addirittura illegali. Questo porta a situazioni paradossali: ad esempio una concubina non potrà partorire prima che l’imperatore l’abbia elevata di grado con uno specifico editto.
La seconda è che in una lotta quasi completamente al femminile, le armi sono tanto sottili quanto sorprendenti (basti pensare che un’arma vera e propria la troviamo solo nella quinta puntata, e fino ad allora le scelleratezze non erano mancate), e sanno far male più di un omicidio. E qualunque cosa può diventare strumento di morte da usare a proprio vantaggio: dai profumi, di cui scopriamo incredibili proprietà venefiche e curative, agli abiti, agli animali, in particolare i gatti, che sanno diventare killer spietati in CGI di topi e non solo…
Ma soprattutto, ad avere potere sono gli elementi naturali. Basti pensare che proprio Zhen Huan, per riconquistare il favore dell’imperatore, userà… delle farfalle.
A proposito della natura, il pregio maggiore di Empresses in the Palace è la scenografia: preponderante, esagerata, immensa.
Sul suo sfondo i personaggi sembrano muoversi come marionette sotto un cielo di carta. L’effetto è davvero straniante e ci si mette un po’ per calarsi perfettamente nel periodo raccontato.
Questo, unito a un trucco e parrucco sempre perfetto e abbondantissimo e in grado di mascherare ogni emozione dal viso, aumenta la sensazione di soffocante estraneità dalle vicende sullo schermo. Estraneità che però allo stesso tempo rende impossibile staccarsi dalla storia narrata, finchè non diventa tanta, troppa, da costringerti a fermarla, fermarti, per poi riprenderla.
Questo perché sono talmente tanti (e spesso sconosciuti per noi occidentali) i riti inconsci sottesi a ogni azione e a ogni parola, che ogni scena è come se pesasse il triplo, ma resta, allo stesso tempo, irresistibile. Tutto questo si riverbera nella trama: le concubine giocano se stesse tra la vita e la morte come fossero in una partita a scacchi. Niente deve essere lasciato al caso, non una parola, non un gesto.
E quando qualcosa di sincero nasce, deve essere soffocato nel silenzio e nelle lacrime. Che sia amore o addirittura che sia odio. Ma nonostante tutto, nulla svanisce per sempre e anche il cuore ha la sua vendetta, per gridare libero come gli aquiloni nel cielo nella 1×04 della serie.
In un contrappasso terribile e sregolato, ognuno diventa il mostro che ha coltivato dentro di sè. E il pedone impazzito sulla scacchiera porta alla follia di chi lo incontra. In un mondo, come quello di Empresses in the Palace, in cui ogni eccezione alla regola (al rito, alla cerimonia, al servizio) non può essere tollerata, la libertà è follia e vana ricerca.
Un labirinto di sogni e ambizioni in una cornice che vi farà innamorare di quella Cina. Empresses in the Palace è un medicinale che va preso a piccole gocce, per i suoi effetti davvero potenti. E che non mancherà di lasciarci addosso più di un’inquietudine. Come un Black Mirror solo all’apparenza più lontano rispetto a noi, ma in realtà terribilmente presente.