La seconda stagione di Euphoria ha dimostrato che non è importante quanto possa esser stata ineccepibile la prima stagione, il punto più alto poteva ancora essere toccato. Fin dall’inizio ci siamo approcciati a questi nuovi episodi con la consapevolezza che le carte da giocare fossero tante, ma non eravamo certi di come sarebbero state giocate. La carne al fuoco era davvero molta, ma provare a fare qualcosa di lontanamente simile al perfetto esordio suonava complesso, estremamente pretenzioso. Perché si tende sempre a sottovalutare il potenziale di un grande opera solo perché figura nella categoria teen drama, ma non esiste cosa più sbagliata di questa. Euphoria – è un dato di fatto – viene amata anche da chi non ama il genere ma, soprattutto, Euphoria non è il solito teen drama in cui con il solo ausilio di droghe, alcol e sesso si dà vita a una storia adolescenziale. Perché, come abbiamo potuto constatare ancor di più con questa nuova seconda stagione, la Serie Tv che abbiamo di fronte ha altri obiettivi che non sono in alcun modo solo narrativi. Nella maggior parte dei prodotti sono gli eventi a rendersi protagonisti della storia, sono essi a influenzarla. Ma non è il caso di Euphoria. L’unica cosa davvero importante, in questo caso, è il personaggio. E’ lui a mandare avanti la storia, anche quando non succede assolutamente nulla. Gli eventi sono le conseguenze, ma quel che fa la differenza si trova all’interno di chi le subisce. Lo abbiamo visto con la seconda stagione ma, ancor di più, lo abbiamo visto con il finale di quest’ultima.
Nella maggior parte dei casi, infatti, la puntata finale coincide con il riassunto di tutti gli eventi che prendono il sopravvento: le cose taciute iniziano a urlare, e quelle urlate imparano a placarsi. Ogni personaggio si trova costretto a far delle mosse che non conosceranno il grigio, ma solo il bianco o il nero. In altre parole, la puntata finale è spesso quella che decide se un personaggio vince o fallisce. In fila indiana, tutte le conseguenze arretrate si scaraventano con forza nelle vite di chiunque senza più concedergli un attimo di tregua, o una possibilità di quiete futura. Quella arriverà, se arriverà, solo alla fine della metà dell’episodio, prima ci sono altre priorità come dar vita a un uragano e vedere come possa sopravvivere chiunque gli capiti intorno.
Questa è la prassi, sì, ma non in Euphoria.
Il finale della seconda stagione non vuole questo e, per ovviare totalmente al problema, dà vita a un’opera teatrale con il solo obiettivo di riassumere tutto quello che sono davvero i personaggi. In un certo senso possiamo dire che, il finale di Euphoria, costringa chiunque a guardarsi allo specchio, e niente di più. Ognuno dei protagonisti si osserva su quel palco e, sotto la direzione di Lexi, vive in terza persona la rassegna stampa della propria esistenza. Su di un pavimento rialzato, così, prendono vita gli errori, gli orrori e le disperazioni interne di ognuno di loro. Non importa cosa abbiano fatto, al finale della serie importa chi fossero davvero mentre lo facevano. Non è suo obiettivo giustificarli, ma è suo compito dimostrare che – a prescindere da qualsiasi errore – ognuno di noi porta dentro dei fantasmi che ci costringono a fare determinate scelte, e non possono essere dimenticati quando le compiamo.
Sapete come funziona, no? La Serie Tv è la madre dei suoi protagonisti e, come tale, li conosce. Sa il perché e il come si siano ridotti a essere e a fare ciò che sono diventati e ciò che hanno fatto. Per questo li porta fino all’esasperazione con una rappresentazione teatrale capace di descriverli: è necessario che lo sappiano anche loro.
Ed è così che Rue scopre di potersi ancora concedere una possibilità e, soprattutto, di potersi fare ancora tenerezza, di riuscire a provare qualcosa per la sua persona. Scopre di potersi accarezzare, scopre di poter ancora camminare e non più solo trascinarsi. Con lo stesso mezzo, ma in modo differente, Lexi scopre di aver vissuto nel silenzio delle sue parole mai urlate arrivando a comprendere quanto, a causa della sua paura, non sia mai riuscita a darsi un’occasione per sentirsi viva. Maddy comprende, forse per la prima volta, che l’ossessione è sempre stata l’unica protagonista del suo legame con Nate. Cassie, intanto, dopo aver vissuto all’estremo di ogni sua sensazione e sentimento, si concede il lusso di non dire e far nulla. Dopo essere scesa da quel palco in cui si è scoperta peggiore di quanto pensasse, rimane immobile. Non ha più forze e quelle che aveva le ha risucchiate tutte Nate. Da questo momento, il suo futuro viene trasportato da un’onda che non sappiamo dove la trasporterà.
Quel che è certo, però, è che in un modo o nell’altro tutti sono coinvolti nella stessa onda di Cassie, anche chi – come Lexi – pensava di non poterci mai finire. Il finale a cui abbiamo assistito è, per l’appunto, una poesia che non conosce parole certe, ma solo insicure e prive di punti conclusivi. Le virgole sono le vere protagoniste, e con loro i puntini di sospensione. Avvicinarsi all’ultima riga di questa poesia non ci fa mai credere che riusciremo a raggiungere il suo senso definitivo, perché quello non esiste, non ancora quantomeno. Le ultime tre righe ci fanno solo comprendere che ne verrà scritta un’altra, e che toccherà a lei aggiungere i punti lì dove mancano. Ma per questo non è ancora il momento. Quel che bisogna fare adesso è leggere con calma lasciando la possibilità alle virgole di separare le parole e lasciare la libertà ai punti di sospensione di portarci altrove. Dove non possiamo saperlo, ma certamente sarà lontano, lì dove risiedono tutti i personaggi che attendono, impazientemente, un nuovo inizio.