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Fargo 5 sa essere femminista senza femminismo

Fargo
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La tigre, scritto t-i-g-r-e, è una delle cacciatrici più feroci della terra
Fargo, 5×05

Per quattro episodi è come se Fargo 5 fosse rimasta inattiva, come se l’anima della serie si fosse sottratta a noi, in attesa che le vicende si dipanassero e avessimo un quadro più completo della trama. Per quattro episodi Fargo si è nascosta mostrandoci solo l’intreccio della “storia vera”, non il simbolismo, la grottesca pennellata che sempre ha permesso di distinguere immediatamente questa da ogni altra serie. Ammutolito è rimasto anche il meraviglioso main theme, Fargo, North Dakota di Carter Burwell, escluso dalle scene. Per quattro episodi abbiamo avuto davanti a noi lo studio preparatorio di un quadro: potevamo distinguerne le figure, lo scenario, il senso generale, ma mancava ogni colore, pennellata, slancio. Mancava il tocco e la firma di Fargo.

Roy
Roy Tillman (640×360)

Poi, d’improvviso, ultimato lo studio preparatorio, qualcosa è cambiato. Sono iniziati a emergere i colori, le sfumature, la tridimensionalità, e a completamento dell’immagine si è levata alta, solenne e dolente la fascinosa colonna sonora di Fargo. Si è stagliata, profonda, in climax ascendente, a chiusura del quinto episodio, dell’episodio più Fargo di Fargo 5, nell’istante in cui Dorothy/Nadine rivela che “Non ti colpiscono quando va tutto a modo loro ma quando sono deboli e fingono di essere forti, quando si aggrappano a qualcosa di piccolo per sentirsi grandi“. “Loro, hai detto ‘loro’“, replica Indira che le è seduta di fronte. Qui, in questo momento esatto, Fargo tira via la sua pennellata, mostrando la firma d’autore, quella musica inimitabile che identifica opera e artista.

Ed è qui che capiamo il senso grottesco, surreale e come sempre profondamente umano e contemporaneo di Fargo.

Un film cult e quattro stagioni ci hanno insegnato che in questo mondo (sur)reale dove accadono vicende (sur)reali, nel microcosmo, cioè, di Fargo, si manifesta il riflesso più autentico della nostra società. Sono storie vere in cui a essere modificati sono i nomi dei superstiti ma “per rispettare le vittime tutto il resto è stato fedelmente riportato”. Sono vere nell’universo surreale e allegorico di Fargo, sono vere nel nostro di mondo anche se i nomi appaiono posticci e le singole trame simboliche. Fargo è un condensato “cult” del nostro mondo, dei tipi umani, dell’imperscrutabile destino di ognuno di noi, del senso misterioso che si annida nelle pieghe della vita. È l’uomo che recita sopra le righe la sua parte di storia per renderla esemplificativa.

Non è casuale, allora, che il main theme compaia, dopo quasi cinque episodi di silenzio, a completamento delle parole di Dot che fanno da summa al tema dominante della stagione. “Loro, hai detto ‘loro’“, prova a capire Indira. Per un momento Dot con quel ‘loro‘ sottinteso è uscita dall’universo di Fargo e ha attinto alla nostra realtà, ha guardato dritto nella nostra società bucando la parete metafilmica che separa i due mondi. Ha visto le brutture di oggi e si è resa consapevole di dover interpretare la parte surreale dell’eroina cult di una guerra culturale. La parte di una tigre, inarrestabile “quando si tratta di salvare i suoi cuccioli o proteggere il suo maschio“.

Fargo
Dot e la figlia (640×360)

Dot ha lottato in passato per la sua libertà e lotta adesso, con le unghie e con i denti, per la conferma di quella libertà. Per tutto quanto di positivo ha costruito e maturato in sette anni. Lotta per il marito buono ma svagato, per la figlia smaliziata. Lotta per se stessa e per tutte le donne. Non a caso i principali antagonisti sono esclusivamente maschi: lo è Roy, naturalmente, ma lo sono anche il figlio di quest’ultimo e i suoi sottoposti, l’avvocato Danish Graves, i due infermieri che internano Dorothy e via dicendo. Al contrario, la poliziotta Indira in questa 5×05 diventa suo prezioso alleato e perfino Lorraine, la ricca e potente suocera, si schiera dalla sua parte (per amore del figlio) contro le pretese di Roy, rinfacciando a quest’ultimo di stare “lottando per il suo diritto di essere un bambino“.

Ogni figura maschile, infatti, con rarissime eccezioni, emerge per la sua immancabile immaturità.

Roy Tillman, come intuiscono criticamente Dot e Lorraine, è un bambino che maschera la sua debolezza dietro pretese di possesso e atteggiamenti machisti, che si aggrappa “a qualcosa di piccolo per sembrare grande“. Lo stesso vale per Gator, inetto e sciocco figlio di Roy, che più volte mostra la sua incapacità e si salva da morte certa solo per caso (si allontana proprio quando il killer Ole uccide il compare). Ma anche una figura teoricamente positiva come Wayne, marito amorevole e accondiscendente di Dot, mostra di non spiccare per intelligenza e personalità e non a caso nel quinto episodio regredisce, dopo la folgorazione, a uno stadio infantile in cui non sa più cosa siano i soldi e si esprime come un bambino.

A completare il quadro ci sono poi tutta una serie di figure maschili accessorie. Esemplificativa la scena che vede l’avvocato Danish Graves a battibeccare con un bodyguard che lui stesso ha assunto ma che ottusamente non lo lascia andar via senza mostrare un documento. “Nessuno entra o esce senza mostrare un documento“. E a nulla valgono le rimostranza di Graves: “Io vi ho ingaggiati, io firmo i vostri assegni!“. “La ringrazio, signore, ma insisto: documento, prego“. A fugare eventuali dubbi sulla stupidità di entrambi arriva a corredo della scenetta la notizia che la piccola Wayne è scappata dalla tenuta. La severa rigidità nei controlli, insomma, che avrebbe almeno potuto essere scrupolosa professionalità, si rivela invece ridicola nel momento in cui viene aggirata facilmente da Dot e dalla figlia che bucano le difese senza problemi.

Danish Graves
Graves e il bodyguard (640×360)

Se pensiamo poi al confronto tra Lorraine e i due banchieri (che preferirebbero trattare con un uomo), ancora una volta le figure maschili ne escono distrutte, annientate dalla soverchiante personalità di quest’ultima che umilia i due poveretti lasciandoli senza parole. Perfino l’agente governativo non sfugge alla “condanna del maschio” in Fargo. Quando ferma Dot all’istituto psichiatrico afferma tronfiamente che la donna “non scapperà più“. Neanche un secondo dopo arriva, puntuale, la rivelazione della fuga. “Non scapperà più eh?“, gli rinfaccia sarcasticamente la collega, ennesima donna che si fa beffe di un uomo.

E si potrebbe andare avanti a lungo ma una menzione conclusiva merita almeno il marito di Indira, una persona inattiva e svagata che si crogiola nelle sue illusioni.

Ancora una volta è una donna a renderne evidente l’inettitudine, Indira stessa. “Tu hai sognato mai di svegliarti un giorno e accorgerti che non sei adeguato allo scopo? Lui non si è ancora svegliato“. Sostanzialmente, quindi, l’ennesimo bambino di questo universo grottesco di uomini immaturi. Anche per lui la battuta sul copione è di quelle più inconsistenti possibili. Entrato in cucina sul finire di quinto episodio, dopo aver ignorato bellamente che in casa si fosse introdotta Dot, continua a parlare senza accorgersi della presenza della donna. Quando finalmente realizza che c’è qualcuno afferma candidamente: “Amore, c’è una signora in cucina“, destando la risposta sconsolata della moglie (“Certo che sì“). Non solo: finisce perfino per guardare con un certo desiderio la bella e materna Dorothy suscitando lo sguardo di allibita disapprovazione di Indira.

Insomma, l’uomo in Fargo 5 nel migliore dei casi è un incapace infantile che persegue ciecamente i propri desideri masturbatori senza preoccuparsi del mondo che lo circonda. È cullato da figure femminili che ora lo difendono, ora sono costrette a tollerarlo: Dot e Lorraine con Wayne, Indira con Lukas, Meyer (l’agente dell’FBI) con il collega. Quando invece la donna manca, l’uomo-bambino ne pretende la presenza consolatoria, facendo i capricci per riaverla (Roy con Dot/Nadine). Perfino il chaotic-evil villain della stagione, l'”highlander” gallese Ole, non può fare a meno di cercare una figura materna a cui appoggiarsi e anche per lui c’è spazio, dopo un discorso apparentemente profondo (“La morte, vita per vita: la mia o la tua“), per la battuta cretina, in risposta all’anziana donna che gli chiede cosa ci faccia in casa sua: “Perché sei qui?“, “I pancake” (5×04).

Fargo
Ole Munch (640×360)

Ecco: il microcosmo di Fargo si è riaddensato per la quinta volta, si è rimodellato con personaggi assoluti nei loro pregi e difetti, con figure totalizzanti che interpretano parti grottesche ma esemplari. Il demiurgo della serie ha attinto al nostro mondo e, come farebbe un alieno se ci descrivesse dall’esterno, ha partorito un cosmo distorto ma efficace nella visione della nostra società. Così facendo Fargo 5 risulta femminista senza affrontare tematiche femministe, senza servirsi di posticci slogan social, senza inclusività obbligata e considerazioni banali, senza voler per forza insegnare qualcosa o prendere posizione. Sappiamo bene di trovarci in un teatro distorto, nel riflesso scomposto del reale. Non ci verrebbe mai in mente di pensare che Fargo voglia dirci che gli uomini sono tutti bambinoni e le donne tutte madri e levatrici. Così come non penseremmo mai che un uomo (il villain Ole) possa vivere cinquecento anni e che una donna stenda i suoi rapitori come Kevin fa con i ladri in Mamma ho perso l’aereo.

Sappiamo bene di trovarci in un limbo sospeso e surreale, riplasmato rispetto alla realtà per eternizzare la storia e i personaggi (indimenticabile rimane per esempio Lorne Malvo della S1) ma ciò non toglie che il tema trovi una sua validità e verità (“Quella che vedrete è una storia vera“). Così Fargo 5, con iperbolica e falsificata narrazione, riesce a essere credibile e accurato. Riesce a essere femminista, anche senza femminismo.