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Feel Good: sfide di equilibrio e sobrietà

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Feel Good è una geniale e molto breve dramedy britannica ideata dalla comica canadese Mae Martin, insieme a Joe Hampson. Si tratta di una serie semi-autobiografica che mescola l’amore alle tante complicanze della vita. Le protagoniste sono la stessa Mae Martin in una versione romanzata di se stessa e Charlotte Ritchie, nei panni della fidanzata George. La serie è disponibile su Netflix, si compone di due brevi stagioni e si fa guardare con la stessa semplicità con cui beviamo un bicchiere d’acqua.

Eppure Feel Good non è propriamente una serie tv leggera, le tematiche sono forti e sviscerate con una scrittura brillante e tanto sarcasmo.

Feel Good
Feel Good Netflix (640×362)

Mae Martin in così poco tempo e spazio ci racconta l’amore tenero, l’identità sessuale e l’identità di genere. Con naturalezza mette sul piatto tematiche e difficoltà all’ordine del giorno, questa costante necessità che sentiamo di avere dei limiti ben definiti, un’etichetta volta a definire con chiarezza ogni tuo confine. Spesso, però, la realtà è ben differente e i confini sono piuttosto labili.

La prima stagione si focalizza principalmente sul tema della dipendenza. Mae è profondamente instabile, la sua relazione con George nasce come qualcosa di puramente spontaneo, le due si innamorano subito ma hanno paura di loro stesse. George non è neanche sicura della sua identità sessuale e Mae è fragile, profondamente fragile. Dietro l’ironia su cui ha costruito la sua vita c’è una travagliata storia di dipendenze che non è ancora pronta a combattere, continuando a cadere e ricadere nello stesso oscuro baratro.

Mae non si sente abbastanza e ha bisogno di aggrapparsi a qualcosa, dalle droghe a George. Così la loro relazione tenera muta sempre di più verso una malsana dipendenza, sembra quasi una bomba a orologeria pronta a esplodere da un momento all’altro, finché la detonazione non avviene per davvero.

La seconda stagione è più bilanciata. Mae ritorna a casa e iniziamo a scavare più a fondo anche nella relazione con i suoi genitori. Da sottolineare una meravigliosa Lisa Kudrow nei panni della madre sui generis di Mae, un grandissimo valore aggiunto a Feel Good

Feel Good
Feel Good Netflix (640×360)

Mae cerca a tutti i costi la fiducia dei genitori, i quali sono ormai stanchi di correre dietro a un tornado che non riescono a trattenere. Si feriscono a vicenda e non sanno come gestire la situazione e come gestire se stessi. Alla base c’è un problema di incomunicabilità che riescono ad affrontare solo nel bellissimo finale.

Feel Good è una storia aperta, perché così è anche la vita. Non c’è un definitivo lieto fine, ma c’è l’inizio di un cambiamento che non deve risolversi sempre nell’autodistruzione.

Una cosa che ho particolarmente apprezzato in questa seconda stagione è anche il maggiore spazio lasciato a Phil, il coinquilino di George. Anche lui è un personaggio molto fragile, quasi infantile. Ha un disperato bisogno di affetto e di essere ascoltato, vuole sentirsi parte di una famiglia che sente di aver perso e, paradossalmente, trova spazio proprio nella famiglia di Mae che lo accoglie come un altro figlio. D’altronde lui ha perso le figure genitoriali, e loro rincorrono da sempre l’idea di una famiglia basata sull’affetto e sulla fiducia. Il personaggio interpretato dal comico Phil Burgers è commovente e forse uno dei meglio riusciti di questa brillante serie tv disponibile su Netflix.

Feel Good si districa tra equilibri instabili e sobrietà rincorse.

Feel Good Netflix (640×427)

George e Mae non funzionano davvero fin quando ognuna della due non fa i conti con le proprie mancanze personali. I buchi neri del passato vanno affrontati prima di cadere di nuovo nelle solite sterili dinamiche autodistruttive. Non si può pensare di vivere una relazione sana se non si è in pace con se stessi. I demoni dell’anima sono sottili e sadici, vengono a galla quando meno ce lo aspettiamo e, allo stesso modo, ci ritroviamo ditesi sotto il letto in preda al panico proprio come Mae.

Non importa davvero se sotto quel letto ci sia qualcuno pronto ad annaffiare quel bonsai, per una relazione che funzioni davvero c’è bisogno che ogni elemento di quella relazione sia un bonsai a se stante, pronto a fare compagnia all’altro ma che trovi la forza di annaffiarsi da solo.

Così, nel panorama mozzafiato canadese Mae si rende conto di non avere più bisogno di George. Non ne ha bisogno ma la vuole al suo fianco. Questa è la dichiarazione d’amore più bella che potesse fare, e lo fa quando è finalmente pronta a farlo, quando dice la verità a se stessa e per la prima volta non si illude di essere stata rincorsa da un orso quando era solo una bambina.

D’altronde i traumi assumono strane forme nella nostra mente, come gli oggetti nella penombra, quando non riusciamo a scorgerne pienamente le forme e la nostra mente le plasma a suo piacimento, dando vita a macabre allucinazioni. A volte, però, basta solo accendere la luce e scorgere la reale forma che si nasconde nel buio.

È un po’ ciò che accade anche tra Mae e sua madre, che finalmente ha il coraggio di scavare dietro quel velo di diffidenza. Lei lo sa che c’è molto di più dietro gli occhi spaventati di Mae, lo sa ma anche lei non è pronta ad ascoltare tutto ciò che marcisce da anni nel cuore del figlio.

Feel Good è reale, leggera e sferzante. Il finale non è una risoluzione fiabesca. Tutti i personaggi hanno fatto solo un primo passo verso un futuro che si rivela comunque incerto. Non hanno risolto i loro problemi con uno schiocco di dita, si sono solo incamminati verso un sentiero di consapevolezza che, in ogni caso, è il primo stadio della guarigione.