**Evitate la lettura se non volete incorrere in spoiler su Bardo, la cronaca falsa di alcune verità, il nuovo lavoro di Alejandro González Iñárritu**
Avete presente quando sognate qualcosa di incredibile e vorreste averlo potuto registrare per rivederlo in seguito e trovarci un senso? Qualcosa che non capite, ma che vi prende lo stomaco e lo accartoccia, vi tormenta e allo stesso tempo vi fa sentire in pace con voi stessi? Bene, Alejandro González Iñárritu l’ha appena fatto con il suo nuovo film onirico e potente di 2 intensissime ore e 39 minuti. Co-scritto, co-prodotto e diretto dal regista di Amores perros, Biutiful e The Revenant, Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdades è atterrato il 16 dicembre sulla piattaforma di streaming Netflix. La pellicola è stata presentata alla 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia il 1º settembre 2022, dove era candidata al Leone d’oro al miglior film. Nel mese di novembre, invece, è stata distribuita nella sale una versione limitata che è stata accompagnata dal ronzio fastidioso di polemiche agguerritissime riguardo il suo impianto sconclusionato e privo di senso. Una mossa, secondo molti detrattori, con cui Iñárritu prenderebbe in giro gli spettatori (I 10 film più controversi che puoi trovare su Netflix e 10 film sottovalutatissimi che vi consigliamo caldamente). Inizialmente intitolato Limbo (un titolo che sarebbe stato troppo indiziario), la commedia drammatica segue le avventure di Silverio Gama (Daniel Giménez Cacho), un giornalista messicano diventato regista di documentari che vive tra Los Angeles e Città del Messico con la moglie Lucía e il figlio adolescente Lorenzo mentre l’altra figlia, Camila, vive a Boston. È il primo latinoamericano a ricevere un prestigioso premio statunitense per il giornalismo, un evento che scatena in lui una violenta crisi di coscienza, rimorsi, riflessioni, fratture e un botta e risposta dal retrogusto esistenziale. Per citare lo script, all’apparenza, il film potrebbe sembrare un’accozzaglia di scene senza senso. Ma Bardo un senso ce l’ha eccome. Basta avere pazienza e lasciarsi trasportare da un caleidoscopio di sensazioni, liberarsi dal pregiudizio e leggere tra le maglie spesse delle immagini e della sceneggiatura.
Bardo, un ritorno alle origini
Bardo segna il ritorno cinematografico di Alejandro González Iñárritu in patria, in Messico. Era dai tempi di Amores perros che non girava un film interamente prodotto nella sua terra di origine ed era da Biutiful che non ne girava uno in lingua spagnola. Il film, fortunatamente, non è stato doppiato perché le scelte linguistiche contengono un significato molto profondo. Basta guardare i dialoghi tra Lorenzo e suo padre. Bardo segna anche il ritorno del regista al montaggio e anche una prima volta, cioè la realizzazione della colonna sonora curata insieme al compositore e chitarrista Bryce Dessner. E come se non bastasse, dopo essersi cimentato con il digitale con Birdman e The Revenant, Iñárritu torna a girare su pellicola, questa volta su formato 65mm.
La fotografia straordinaria di Bardo, invece, è stata affidata all’iraniano Darius Khondji, lasciando quindi in panchina i suoi fedeli connazionali Rodrigo Prieto ed Emmanuel Lubezki. Le affascinanti scenografie sono state invece realizzate da un connazionale, Eugenio Caballero, già vincitore del Premio Oscar per Il labirinto del fauno di Guillermo del Toro. Una squadra tecnica così straordinaria e visionaria non poteva che assicurare una realizzazione di grande maestria e una resa maestosa. L’impianto onirico di Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdades lascia sospesi, interdetti e senza parole. Rapiti e stupiti, come dei neonati che vedono per la prima volta le luci della sala parto.
La critica internazionale non ci sta
È vero. I primi venti minuti di Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdades potrebbero sembrare un esercizio di stile fine a sé stesso. Un susseguirsi meraviglioso di immagini spaventose, strane e prive di senso messe in fila al solo scopo di scioccare lo spettatore. E sì, il bambino appena nato che torna nella pancia della mamma può aver causato dei forti capogiri (ma ancora non sapevamo che lo avremmo rivisto spuntare tra le gambe della madre qualche scena dopo). Questa ombra nel deserto, poi, che non riesce a spiccare il volo? L’affanno e le voci? Il lungo cordone ombelicale tagliato? E poi la guerra tra Stati Uniti e Messico con la proposta di Amazon di comprare la Bassa California? Alejandro González Iñárritu, ci stai prendendo in giro?
Dopo aver realizzato dei film caratterizzati da una solida coerenza narrativa come 21 Grams e Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance), il regista ha forse deciso di rincorrere il suo estro artistico, prendendo una deriva felliniana fine a sé stessa? È questo che molti spettatori e svariati critici affermati hanno pensato e scritto. Un’esecuzione piena di maestria, certo, ma una storia deludente senza capo né coda. L’aggregatore Rotten Tomatoes mostra un gradimento nemmeno sufficiente (58%) della critica contro un misero 72% del pubblico mentre IMDb indica un punteggio di 7,3/10. The Guardian lo ha liquidato con due stelline, considerandolo “gonfio, occasionalmente brillante”. Insomma gran parte della critica lo considera un film autoindulgente e pretenzioso. Esattamente come Luis (Francisco Rubio), il giornalista e presentatore lecchino e patinato, ha recensito il nuovo documentario dell’amico e collega Silverio Gama.
Il senso c’è, basta saper ascoltare
Tra sogno e realtà, tra frasi fatte e lucide riflessioni, nella sovrapposizione tra immagini e dialoghi emerge il significato dell’opera di Iñárritu. Silverio Gama è un importante giornalista che vive con un piede in due scarpe, quella dei “gringos” e quella della sua terra d’origine. Una terra di mezzo in cui si sente perennemente straniero. Silverio sta per ricevere un riconoscimento importante da parte dei “gringos” e per questo subisce critiche e attacchi da ogni fronte. Dai connazionali che lo considerano “un fi**tto borghese che vuole raccontare la vita degli emarginati“, da chi lo sostiene finanziariamente, dai suoi figli, cresciuti in terra straniera, da sua moglie e dai suoi amici. Ma sopra ogni altra cosa, da sé stesso. Perché siamo noi i giudici più spietati delle nostre azioni. Bardo è dunque una riflessione sui limiti del lavoro dell’intellettuale, sull’etica, sul senso delle radici, sul significato di casa e famiglia che si dipana attraverso una narrazione metafisica che sottolinea i paradossi della storia e del popolo messicano.
Bardo un senso ce l’ha eccome. Basta saper ascoltare quella sensazione di incertezza che ci attanaglia lo stomaco e rimettere insieme i pezzi. Il nuovo film di Iñárritu contiene una prospettiva sicuramente personale. Tuttavia Bardo, la cronaca falsa di alcune verità non è un’autobiografia. Quella sarebbe una cosa stupida, fa dire a Silverio. Eppure, il regista è riuscito a trasporre l’intensità del sentimento personale in ogni fotogramma. Un sentito che condivide con tanti colleghi e personaggi famosi messicani, degli “emigrati di prima classe”, primi fra tutti, Gael García Bernal e gli altri due dei “The Three Amigos”, i registi e amici Alfonso Cuarón e Guillermo del Toro. Questa volta il regista di Babel ha dato voce al migrante che vive in lui, e in ogni messicano. Per capire Bardo basterebbe guardare la pellicola dal punto di vista di chi non sa più quale luogo chiamare casa. E poi basterebbe guardare il titolo.
Nel buddismo tibetano, “bardo” designa lo stato intermedio attraverso il quale gli esseri passano tra la fine di una vita e l’inizio di quella successiva. Silverio ama la moglie Lucía (Griselda Siciliani) e i suoi figli, Lorenzo (Íker Sánchez Solano) e Camila (Ximena Lamadrid). E ama Mateo, il figlio vissuto per un solo giorno perché ha deciso di ritornare nella pancia della mamma. No, Iñárritu non ci stava prendendo in giro. Si tratta di una metafora spaventosa, magnifica, illogica e disgustosa, proprio come la vita. Silverio è celebrato sia a Città del Messico che a Los Angeles. Due città in cui vive insieme alla sua famiglia, ma che hanno creato in lui una frattura insanabile. Nonostante il suo successo e una vita pienamente realizzata, nel Limbo, Silverio è colto da uno stato di agitazione, smarrimento e malumore.
Faccio tutto per il riconoscimento e quando arriva non lo sento, lo detesto o credo di non meritarlo.
Bardo, la cronaca falsa di alcune verità
C’è il Limbo in cui si trova effettivamente il protagonista dopo aver avuto un infarto, ma c’è il Limbo spirituale in cui vive il migrante. C’è anche il Limbo fisico dell’attraversamento dei confini: tra la vita e la morte; tra realtà e finzione; tra il personale e il professionale. Ma, soprattutto, i confini tra Messico e Stati Uniti. Due Paesi che sono davvero impegnati in una guerra senza fine. Non si combatte più con giubbe e baionette, ma è una lotta culturale e di sopraffazione dell’altro che non vuole finire. Una guerra di incomprensioni, luoghi comuni e accuse reciproche. Silverio ha accumulato un “bardo” molto oscuro e turbolento, ma possiede anche un’anima buona e radiosa. Un mix tra luce e ombra, gioia e tristezza, rabbia e bontà che è stato reso alla perfezione dalla fotografia di Darius Khondji, a volte Impressionista, a volte degna di un provetto De Chirico. Un sogno lucido, inizialmente confuso, ma che alla fine acquista un senso liberatorio.
«Non vuole uscire, dice che il mondo è una m***a»
I dialoghi si alternano tra pensieri del protagonista, frasi fatte, autocritica, autocommiserazione, preconcetti, certezze, apologie, fantasmi (ora suo padre, ora il conquistatore Hernán Cortés), considerazioni soggettive, verità oggettive e timori. Sono intensi, ma pieni di fratture e contraddizioni, come lo è la sua terra d’origine. Nel Limbo, oltre ai drammi e alle gioie personali, si fa sentire il peso di un sentimento collettivo. Emergono le contraddizioni e le ironie del passato messicano, la violenza della conquista spagnola, la guerra messicano-americana del 1840 e l’ascesa dei cartelli della droga. Certo, Bardo si avvale di un linguaggio simbolico a volte troppo onirico, ma il senso c’è e non può essere frainteso. Per capire Bardo basterebbe leggere anche il sottotitolato: la cronaca falsa di alcune verità.
Per tutto il tempo, Silverio accusa sé stesso. Si considera “Il Signor verità”, “Il Signor spirito critico”. Si vergogna del suo lavoro, a volte troppo pretenzioso e autoindulgente. Esattamente come la critica ha bollato il nuovo film di Alejandro González Iñárritu! Bardo è riuscito perfino ad anticipare le critiche e allo stesso tempo a respingerle oppure ad accettarle sommessamente. Attraverso il protagonista, il regista si interroga quindi sul significato di “verità”, ricorrendo a un linguaggio narrativo che fa leva sul paradosso. Infine, il regista torna a riflettere sulla frammentazione del tempo e sulla soggettività, un tema già indagato nelle precedenti opere, spostando il racconto nel mondo dei sogni. E così, l’inizio della storia coincide con la fine. Bardo è un lavoro maturo, strutturato, coraggioso che nasce dalla voglia di intavolare un dibattito e di mettersi in discussione. Un flusso emozionale affascinante e divertente, che critica il pubblico e la critica e si autocritica. Un susseguirsi di considerazioni confuse e lucide, sincere e ingannevoli. Per qualcuno l’impianto onirico e le sequenze allucinatorie sono deludenti, ma il potere delle immagini e la bravura degli interpreti non possono essere messi in discussione.
Ha ancora senso raccontare qualcosa quando la vita è solo un’accozzaglia di eventi senza senso? Bardo è una resa meravigliosa ed esistenzialista che trascende la storia. L’affermazione della mancanza di certezze in un mondo che non ha senso. È forse questo che Iñárritu ha voluto indagare. Senza prendere in giro nessuno. Intavolando un processo alla storia personale e collettiva, il regista si avvale di un susseguirsi di immagini illogiche che acquistano un significato, seppur sfuggevole, solo se siamo disposti a guardarci dentro e a fare autocritica, come ha fatto lui.