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La spiegazione del finale di Blade Runner (1982)

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Era il 1982 quando nelle sale di tutto il mondo usciva Blade Runner (potete trovarlo su NowTv), un film dapprima divisivo, poi destinato a diventare cult del cinema. Diretto da Ridley Scott, l’iconico film è una combustione tra fantascienza, thriller e noir, diventato capostipite di un nuovo immaginario cinematografico. Liberamente adattato dal romanzo di Philip K. Dick, Il cacciatore di androidi (1968), il film segue Rick Deckard (Harrison Ford), un cacciatore di replicanti (blade runner). Deckard viene richiamato in servizio per “ritirare” quattro replicanti evasi dalle colonie extra-mondo. I fuggitivi, capitanati da Roy Batty (Rutger Hauer), stanno cercando di sovvertire il limite di quattro anni di vita imposto ai replicanti dalla Tyrell Corporation.

L’azienda è responsabile per la creazione dei replicanti, androidi sintetici con ricordi innestati, sfruttati per i lavori più umili e faticosi, ma dotati di intelletto e forza fisica superiori agli esseri umani. Queste sono le premesse di uno dei finali che hanno segnato la storia del cinema. La densità di significato del finale di Blade Runner, a mio parere, ha una ricaduta ancora più importante oggi (ironia della sorte, dato che il film è ambientato nel 2019).

Ci troviamo, infatti, in un momento storico in cui l’applicazione e l’utilizzo di intelligenze artificiali sta diventando prassi quotidiana. Anche gli studi nell’ambito della robotica stanno facendo passi da gigante e, inevitabilmente, in molti stanno cominciando a porsi quesiti di natura morale (come fanno altri prodotti che trattano il tema). Il finale di Blade Runner, a modo suo, è stato anticipatore di tutto questo, ponendoci una domanda tanto semplice, quanto spiazzante: cosa significa essere “umano”?

La vita è fugace come “lacrime nella pioggia”

Roy Batty e il monologo

Dopo essere riuscito a eliminare Pris (Daryl Hannah), terza replicante fuggita, Deckard si scontra un Roy che ha deciso di dedicare gli ultimi istanti di vita a vendicare i fratelli e le sorelle replicanti caduti. Fuggendo dall’ira di Roy, Deckard scivola da un tetto e resta aggrappato a una trave sospesa sul vuoto. Quando lo raggiunge, il replicante, in un ultimo atto di umanità, decide di salvare il suo persecutore. Prima di esalare il suo ultimo respiro, Roy riflette sul significato dell’esistenza (propria e non solo) in un monologo di cui chiunque (anche chi non ha mai visto Blade Runner) conosce l’incipit:

Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi:
navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione,
e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser.
E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo,
come lacrime nella pioggia.
È tempo di morire.
(Roy Batty)

In questo monologo e nell’accettazione della propria fine, Roy riflette sulla sua esperienza (anche se breve e/o innestata) e sulla consapevolezza della fugacità della vita. Questa presa di coscienza ha tanto valore sia per gli umani, sia per i replicanti. Nonostante la natura artificiale, i replicanti possiedono desideri e paure che, sebbene innestati, li rendono quasi umani. L’ultima azione di Roy è stata quella di salvare l’uomo mandato per ucciderlo, mostrando più umanità e compassione degli stessi esseri umani.
Non ci è dato sapere cosa sia successo al largo dei bastioni di Orione, oppure cosa siano i raggi B. Sappiamo soltanto che quei ricordi, così vivi nella mente di Roy, con la sua morte, andranno perduti, come lacrime nella pioggia. I ricordi, che li appartengano o meno, sono per Roy realtà, la sua realtà. Essi sono perché esistono nella sua mente.

L’origami a forma di unicorno

blade runner, l'origami a forma di unicorno

Come una certa trottola di nolaniana memoria, anche il finale di Blade Runner racchiude tutto il dubbio attorno alla natura del protagonista in un piccolo oggetto: un origami a forma di unicorno. Dopo la morte di Roy, Deckard torna nel suo appartamento, dove trova Rachael (Sean Young), la replicante di cui si è innamorato e in fuga dal “ritiro” da parte di un altro blade runner. La coppia decide, così, di scappare insieme. Nella fuga dall’appartamento, Rachael sfiora col tacco un origami posto a terra. Questi ha la forma di un unicorno, di cui Deckard ha avuto diverse visioni e sogni ad occhi aperti.

Come si vede più volte, Gaff (Edward James Olmos) ha una passione per gli origami, in quanto lo vediamo crearne diversi. Si può facilmente supporre che l’origami-unicorno sia stato lasciato lì proprio dal collega blade runner. Un monito, Un avvertimento. Ma anche un dubbio. Come fa Gaff a conoscere il sogno di Deckard? Anche i ricordi di Deckard sono innestati? Deckard è, quindi, un replicante? Se anche così fosse, i suoi ricordi e la sua identità sarebbero autentici?

Il finale di Blade Runner, volutamente ambiguo e indefinito, ci invita a porci domande, più che a cercarvi delle risposte. Umanità, mortalità, identità. Questi i temi affrontati dalla pellicola e sui quali ci invita a riflettere. Cosa ci rende umani? I ricordi? Le emozioni? O qualcos’altro?
La morte implica l’eliminazione dei ricordi? Ma la nostra cessazione di essere è termine dell’esistenza di quei ricordi? Ciò che per noi è stato smette di esistere con la nostra morte? La memoria ci plasma, è parte di noi, che essa sia reale, modificata o, come nel caso dei replicanti, innestata. Il fatto che il ricordo sia innestato, data l’esistenza dello stesso, rende un replicante meno umano?