ATTENZIONE: l’articolo potrebbe contenere spoiler su Campo di battaglia, il film di Gianni Amelio presentato in anteprima alla Mostra del cinema di Venezia!
Cataste di corpi ammassati gli uni sugli altri. Cumuli di cadaveri in decomposizione. Tutti lividi, tutti gelati, tutti ormai privi di vita. La prima inquadratura di Campo di battaglia è un incubo tetro, una sbirciata silenziosa sulla soglia di una storia agghiacciante. È tutto cianotico, scuro, violaceo. C’è un soldato che scava tra i corpi in cerca di un pezzo di pane, di una moneta o di qualche oggetto di valore. Il suo frugare è distaccato, quasi meccanico, come se non stesse infilando le mani nei corpi dei suoi compagni, ma in oggetti privi di vita. Campo di battaglia, il film di Gianni Amelio (con Il signore delle formiche aveva conquistato i nostri cuori) uscito nelle sale il 5 settembre, accoglie lo spettatore introducendolo alla deumanizzazione dei corpi e dei sentimenti, scaraventandogli addosso l’asimmetria tra gli orrori della guerra e l’incedere indolente dei personaggi che vi camminano dentro.
Campo di battaglia è, prima che un film sulla guerra, un’opera sul disfacimento.
Disfacimento dei corpi, disfacimento degli eserciti, delle nazioni, dei grandi ideali del XIX secolo. È tutto disegnato con cura raccapricciante. La decomposizione, le ferite, la putrefazione. Del campo di battaglia c’è ben poco o quasi nulla. La guerra è visibile solo attraverso i segni che lascia sui corpi dei soldati. Non ci sono sequenze girate al fronte, non c’è la trincea, non ci sono i colpi di mortaio. Il film è girato quasi unicamente nei corridoi di un ospedale militare del Friuli Venezia Giulia. Siamo nel 1918, ma è solo un caso. I riferimenti temporali sono solo un accidente, Amelio intende parlare di disfacimento in termini universali, rivolgendosi agli uomini di ogni tempo e soprattutto a quelli del nostro tempo.
La Prima Guerra mondiale è perciò solo uno sfondo. Ne avvertiamo l’eco solo attraverso alcuni dialoghi tra personaggi. La intercettiamo nei titoli dei quotidiani, nei colori lividi delle uniformi dei soldati, nei codici militaristi vigenti a quel tempo. Ma la guerra ha una dimensione più vasta e conseguenze senza tempo, che trascendono il periodo storico e i personaggi e diventano parte di un discorso più ampio. Campo di battaglia si racconta attraverso due personaggi, Giorgio Montesi e Alessandro Borghi (che sui set delle serie tv litiga spesso). Il primo è un medico ufficiale dell’esercito, incorruttibile e con un alto senso del dovere. Figlio di una famiglia benestante e alto-borghese, indossa l’uniforme senza spavalderia ma pure con poca umanità. Passa in rassegna i feriti alla ricerca di bugiardi e disertori, cercando di scovare gli imbroglioni che, pur di non essere rimandati al fronte, si autoinfliggevano ferite e mutilazioni sperando di poterla fare franca.
L’altro, Alessandro Borghi, è un medico più schivo ma anche più empatico.
Bravo almeno quanto i suoi professori, si aggira tra i corridoi dell’ospedale senza dare troppa importanza all’uniforme. Gli interessano più le sorti dei malati che quelle della guerra ed è a loro che cerca di tendere una mano aiutandoli ad aggravare le ferite e a renderli storpi o ciechi, a seconda della propria volontà. I due protagonisti di Campo di battaglia rappresentano perciò due visioni opposte della guerra. Montesi è il prodotto di una società autoritaria e claustrofobica, allevata ad inseguire una giustizia veramente giusta per pochi. Onore, patria, rispettabilità, senso del dovere, sono la via maestra per orientarsi in una società, quella della prima metà del Novecento, in cui gli uomini sono carne da macello nelle mani di una ristretta oligarchia di potenti che ridisegna i confini dell’Europa a proprio vantaggio.
Borghi è invece un’anima più anarchica, pur nella sua compostezza. È un personaggio più contemporaneo, che riusciamo a sentire più vicino a noi perché dotato di una sensibilità distante dai codici novecenteschi. Per lui l’orrore della guerra è visibile nei corpi maciullati che arrivano in sala operatoria. È degli uomini che si preoccupa, non dei soldati. Sotto le uniformi, si nasconde una vittima. Ed è per una questione di coscienza che lui sceglie di ergersi a carnefice: per salvare quelle vittime, per strappare più corpi possibili alla furia distruttrice della guerra. Tra di loro, tra Montesi e Borghi, Gianni Amelio introduce un altro personaggio: Anna (Federica Rosellini), una volontaria della Croce Rossa che è sentimentalmente legata a entrambi. La sua figura è però piuttosto opaca. Utile a guidare lo sguardo dello spettatore nelle vicende dell’ospedale e nella relazione tra i due protagonisti, ma fin troppo inconsistente ai fini della sceneggiatura.
I veri protagonisti di Campo di battaglia sono però loro: i feriti e gli sbandati, quelli che nessuno saluta e a cui nessuno porge gli omaggi, perché non si festeggiano i perdenti.
Il più delle volte non hanno neppure un nome, ma si aggirano sull’inquadratura con i loro volti insanguinati, le ferite aperte, gli arti amputati. Sono le prime vittime della guerra, quelle che cadono in prima linea o si salvano per miracolo. Sono le braccia che si muovono appena in un un sussulto di vita in mezzo a caterve di corpi amici, mutilati e ormai freddi. Parlano dialetti diversi e difficilmente comprensibili senza l’ausilio dei sottotitoli. Ma poco importa, perché tra soldati ci si capisce. Il linguaggio della morte è un linguaggio universale, che non ha bisogno di particolari interpretazioni per essere compreso. D’altronde, sono le ferite a parlare, i loro sguardi impauriti, i fremiti e i sussulti. Campo di battaglia va oltre il realismo e insiste sui particolari più truculenti, per scandalizzare i nostri sguardi di spettatori moderni e dare un assaggio di orrori che sono purtroppo senza tempo.
Il film è un ammonimento, una barriera infranta contro il nostro sentirci sicuri e a distanza dalla devastazione della guerra.
Nella seconda parte, il film diventa se possibile ancora più “attuale”. I colpi di tosse, le mascherine, le morti inspiegabili e i limiti della medicina ci riportano allo spettro delle epidemie e insistono sempre sul tema centrale del film, quello del disfacimento del corpo umano. Nel 1918, l’epidemia della spagnola maciullò centinaia di migliaia di persone. I medici non sapevano come curarla, i pazienti continuavano a cadere l’uno dopo l’altro, senza capire bene quali fossero le cause del contagio. È, ancora una volta, l’impotenza dell’uomo dinanzi alle catastrofi della storia ad essere messa in risalto. Siamo piccoli ed insignificanti dinanzi alle conseguenze della Storia, un po’ come piccolo ed insignificante era il protagonista de La stella che non c’è, un film che sembra addirittura del secolo scorso.
Accolto con sette minuti di applausi alla sua Prima mondiale (qui tutti i minuti di standing ovation di Venezia 81), il film di Amelio sembra però troncato in due parti. L’inizio – molto angosciante, claustrofobico e sofferto – sembrerebbe preannunciare un secondo tempo dotato di sintesi. Ma è proprio quando dovrebbe tirare tutte le somme e dirci quello che per 100 minuti ha solo sussurrato che Campo di battaglia si smarrisce, regalandoci un finale stemperato e impattante solo dal punto di vista emotivo. Si esce dalla sala con un’inquietudine strisciante addosso. È quel senso di precarietà e angoscia che, lungi dall’essere una unicità del secolo delle “Grandi Guerre” (le serie che hanno affrontato in modo più profondo il tema della guerra), attraversa latente – e sotto forme diverse – anche la nostra contemporaneità.