3) Old boy ci racconta la più violenta vendetta del cinema sudcoreano
Lo show è un thriller d’azione neo-noir sudcoreano del 2003, co-scritto e diretto da Park Chan-wook. È basato sull’omonimo manga giapponese scritto da Garon Tsuchiya e illustrato da Nobuaki Minegishi. Oldboy (è tutto vero, il film diventa serie) è il secondo capitolo di The Vengeance Trilogy e segue la storia di Dae-su, un uomo sposato e con una figlia piccola, che possiede molte amanti e il vizio dell’alcol. A questo proposito, una sera la polizia lo ferma per ubriachezza molesta. Non appena viene rilasciato però scompare nel nulla. Si risveglia così in una squallida stanza, dove è tenuto prigioniero scoprendo poco dopo che sua moglie è stata assassinata e lui è il principale sospettato. La sua prigionia dura quindici anni. Un tempo infinito, passato a covare un odio profondo verso il suo sconosciuto aguzzino e a prepararsi fisicamente alla vendetta.
Quando viene finalmente rilasciato, Dae-su si ritrova ancora intrappolato in una rete di cospirazione e violenza. La sua ricerca di vendetta diventa legata al romanticismo quando si innamora di una giovane e attraente chef di sushi, Mi-do. Per la sua sopraffina qualità, l’opera ha vinto il Grand Prix al Festival di Cannes del 2004 e ha ricevuto grandi elogi dal presidente della giuria, il regista Quentin Tarantino. Anche la critica americana ha accolto bene il film. Non a caso, il critico cinematografico Roger Ebert ha affermato che Old boy è un film potente non per ciò che descrive, ma per le profondità del cuore umano che mette a nudo. Può infatti definirsi un inquietante capolavoro tra i thriller d’azione, fitto di colpi di scena oscuri e iconiche riprese non adatte ai deboli.
Uno dei film del cinema sudcoreano che più accompagna lo spettatore in un baratro profondo
L’obiettivo della pellicola è mostrare in maniera diretta le più animalesche pulsioni dell’animo umano. Qui la violenza consumata dalla vittima durante l’inseguimento del suo carnefice non lascia nessuna concessione al ludico. Di fatto l’affannosa ricerca di Dae-su, interpretato per l’appunto dal magistrale Choi Min-sik, è una causa estremamente seria per il regista. Tale da voler suggerire a chi guarda tutto il suo concitamento e l‘aspetto allucinato, tali da rendere ancora più tese le corde di questa tragedia ben assestata. Inoltre, lo stile di ripresa e di montaggio accentua il senso di angoscia claustrofobica provata dal protagonista che, tornato libero, si rende conto di essere ancora in trappola.
Curiosa è infine la notizia che, in seguito al successo del film originale, Spike Lee ha prodotto un remake statunitense nel 2013. La Mandate Pictures ha dunque preso in carico il progetto su una sceneggiatura scritta da Mark Protosevich. Tuttavia, questi si è prevedibilmente rivelato un flop che ha incassato a livello mondiale solo 5.2 milioni di dollari contro una spesa di 30 milioni.
4) Nel cinema sudcoreano, Thirst innesta il tema vampiri all’estetica del profano
Thirst è un film horror sudcoreano del 2009 prodotto, scritto e diretto da Park Chan-wook. È vagamente basato sul romanzo Thérèse Raquin di Émile Zola ed è uno dei film meno noti del celeberrimo Park Chan-wook, nonché vincitore del premio della giuria al 62° Festival di Cannes. Interprete principale della pellicola è Song Kang-ho, attore feticcio di Bong Joon-ho e comparso anche in un cameo in Lady Vendetta. Il protagonista, Sang-hyun, è un prete cattolico che, dopo un’esperienza sospetta di morte e resurrezione, ricopre il ruolo di santo guaritore. Quando le sue condizioni di salute ritornano precarie, inizierà però a manifestare una strana tendenza al vampirismo.
La realtà più torbida però rivela che egli si è innamorato della moglie di un suo amico e che si trasforma in vampiro attraverso un esperimento medico fallito. Thirst è un horror polisemico che si muove fra il romanticismo profano, la fede e il vampirismo. Sembra essere quasi la maschera da cinema sudcoreano della Midnight Mass (qui ve ne abbiamo parlato approfonditamente) di Mike Flanagan, della quale rievoca la stessa tematica sul precario confine fra sacro e profano. La pellicola si configura anche come un dramma atipico e dissacrante, che tocca il vertice mediante il prevalente intreccio della musica sacra con i gemiti sensuali. La condizione del protagonista parte dunque dalla sua mostruosa trasformazione e dalle conseguenze a queste annesse.
Come un Frankenstein orientale la fisicità di Sang-hyun fa da riflesso al suo dramma interiore e morale
A questa irrevocabile tendenza animalesca, tenta di contrapporsi in ogni istante infatti la sua vocazione collegata alla fede sacerdotale. Tuttavia è l’istinto irrefrenabile che lo domina, tale da orchestrare il suo corpo più del giudizio etico. Come se non bastasse, il riferimento all’opera di Zolà ha aggiunto al racconto la storia d’amore tra il prete e Tae-ju. Questa è tale da mostrare pure la macabra variabile di una relazione ossessiva e difficile da soffocare. Il terzo elemento del triangolo, pertanto, è necessariamente destinato a diventare oggetto sacrificale di una passione distruttiva.
Un oggetto di punta del cinema sudcoreano che diventa una storia sull’accettazione della condizione umana. Una film che prende spunto dal valore contraddittorio e perverso dell’umanità e dalla coerenza con il proprio ruolo in questa vita. Si può infine asserire che si tratta un vampire movie sui generis in senso assoluto, che smuove i diversi generi dell’horror, del thriller psicologico e del fantasy. Tante tendenze quante sono le sfaccettature dell’animo umano, preda della corruttibilità più spicciola e del peso irreprensibile di una mortalità che ci rende dei selvaggi senza tempo.