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10 film da vedere per riscoprire il cinema sudcoreano

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9) The Handmaiden ci racconta il thriller erotico più elegante del cinema sudcoreano

La pellicola, nota anche con il titolo Mademoiselle, è diretta nel 2016 da Park Chan-wook ed è ispirata al romanzo inglese Ladra, scritto da Sarah Waters e ambientato nella Londra del 1862. Il lungometraggio è ambientato nella Corea del Sud degli anni ’30 durante l’occupazione giapponese. Sook-hee, ragazza di umili origini, viene assunta come cameriera personale della giovane ereditiera giapponese Hideko. Questi rimasta orfana di entrambi i genitori, vive reclusa nella grande villa dello zio Kouzuki, suo autoritario tutore nonché ricco collezionista di libri erotici. In realtà Sook-hee è un’esperta borseggiatrice ingaggiata da un altro truffatore, il conte Fujiwara, perché lo aiuti a sedurre Hideko e a mettere così le mani sul suo ingente patrimonio. Tra Sook-hee e Hideko nasce, nel frattempo, una relazione sempre più intima. Pertanto le cose non sono come sembrano e il piano non andrà come previsto.

I riflettori sono posti su due donne legate da un rapporto fatto di astrali dicotomie

L’eros diventa uno strumento di rivelazione e libertà, tale da fa saltare i piani dell’uomo colpevole, ristabilendo così un nuovo ordine. Tra le stanze della villa si incrociano suggestioni che fondono insieme Oriente e Occidente. Queste sono così espressive da citare il feticismo di Hitchcock (qui un largo approfondimento su di lui) e i melodrammi sudcoreani di Kim Ki-young. Così come le sottili perversioni malcelate di Charles Dickens si scontrano con la tradizione shunga delle stampe erotiche giapponesi. Si tratta di uno pseudo-pacifico prodotto del cinema sudcoreano dove il ritmo privo di azioni forti si infittisce di tematiche attuali in enorme valore. Nella sua totalità appare come una travolgente storia d’amore, ma in realtà si evolve in un thriller di vendetta su più livelli tali da farla sembrare un tormentato puzzle.

Il film gioca pertanto sul prevalente contrasto tra forma e contenuto. La prima è connotata da una raffinata fattura mentre il secondo non indugia a presentarsi grottesco e pruriginoso il più delle volte. Sono dunque i plot twist selvaggi e le soluzioni melò a rendere questo film molto avvincente. Un’accurata caratterizzazione delle protagoniste unita al loro splendido dinamismo, conferisce quel magico quid al prodotto finito. Soltanto un occhio sofisticato può scrutare a fondo questa pellicola per poi uscirne carico di emozioni ambivalenti e visioni mai avute prima.

10) I Saw The Devil è una brutale storia di sangue

Parliamo di un action thriller sudcoreano diretto da Kim Jee-woon, mentre nel cast emergono i nomi di Lee Byung-hun e Choi Min-sik. È stato presentato in anteprima negli Stati Uniti al Sundance Film Festival del 2011 per poi essere distribuito in un numero limitato di sale cinematografiche statunitensi. La narrazione trova il suo fulcro nel serial killer Kyung-chul. Questi è uno psicopatico che ha commesso un’infernale serie di omicidi per cui la polizia lo cerca da tempo senza mai riuscire a catturarlo. Quando la figlia di un capo della polizia in pensione viene trovata morta, il suo fidanzato Dae-hoon, un agente segreto, decide di catturare l’assassino. Spinto da un’insopprimibile brama di vendetta, infatti, l’uomo inizia a braccarlo utilizzando metodi poco ortodossi.

Kim orchestra le dosi di violenza con uno stile asciutto e con un montaggio nervoso per un duello in cui le istituzioni pubbliche sono invisibili di fronte alla giustizia privata. L’idea di perpetrare il male in virtù del bene anche tramite azioni illecite mette in cortocircuito i due mondi, tanto che il diavolo si specchia negli occhi della vittima e viceversa. Diventa dunque un tripudio di violenza, una dedica iperrealista alla crudeltà che parte dal poliziesco per sconfinare nell’horror più truculento. Niente di nuovo in fondo per il cinema sudcoreano che risulta già dai primordi corroborante, spontaneo e volgare. Così, per queste ed altre qualità si discosta con ampollosa incisività da quello occidentale, forse ancora troppo tradizionalista e stagnante.

Sconcertante nell’economia della storia è la trovata di Dae-hoon di far ingoiare una ricetrasmittente al serial killer

Egli non lo uccide pur avendolo sotto mano, ma preferisce prolungare la caccia e perseverare il più possibile con la sua tortura psicologica. Non per niente pare che l’intero film sia soltanto un pretesto per includere una serie raccapricciante di brutalità ai danni di chiunque. Di fatto tutto appare saturo in modo iperbolico e trasgressivo, surclassando anche le scontate basi della verosimiglianza e della morale dello spettatore.

Jee-woon Kim è certamente un cineasta sopra le righe. Quest’ultimo è infatti riuscito a mettere in scena con il suo abilissimo utilizzo della macchina da presa una trappola per topi, dove la linea di demarcazione tra vittima e persecutore si genera per inerzia. E non appena la macchina parte non riesce più a fermarsi, seguendo un incontrollato turbinio senza fine che può portare solo alla distruzione senza pietà. In conclusione, dobbiamo ammettere che questo – insieme ad altri prodotti del cinema sudcoreano a effetto – non sono digeribili da tutti gli spettatori. Solo una nicchia li contempla come opere di eccelso valore, poiché le uniche capaci di smuovere le sensazioni più viscerali di chi guarda.

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