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Il film della settimana – Dogman

Dogman
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Tutti abbiamo vissuto quella spiacevole situazione raccontata brillantemente da Zerocalcare in Strappare lungo i bordi: chi non è mai stato ore a scorrere i film sulle piattaforme streaming e non trovare niente da vedere pur avendo a disposizione “tutto l’audiovisivo del mondo” e pensando “è possibile che son tutti film de m*rda”? Certo, la roba bella magari l’abbiamo già vista, altra siamo in ritardo e altra ancora la teniamo per il momento giusto – se arriverà. Vogliamo evitare, però, di finire nella fantascienza polacca del ‘900 in lingua originale, andare a letto frustrati con la nostra coscienza sottoforma di Armadillo che ci costringe a interrogarci su noi stessi dicendo: “Dai su, se su ottomila film non te ne va bene manco uno, forse sei te che non vai bene”. Proprio per questo nasce la seguente rubrica settimanale, in onda ogni lunedì e rivolta sia a chi la pellicola in questione non l’ha mai vista, sia a chi l’ha già visionata e vuole saperne di più: infatti, nella prima breve parte vi consigliamo un film; nella seconda invece ve lo recensiamo, analizziamo o ci concentreremo su un aspetto particolare. E questa settimana abbiamo scelto Dogman.

PRIMA PARTE: Perché, dunque, vedere Dogman? Ecco la risposta senza spoiler

Splendido, viscerale, non facile, forse il capolavoro di Matteo Garrone. Il regista si ispira a un fatto di cronaca del 1988, ovvero l’omicidio del pugile Giancarlo Ricci a opera di Pietro De Negri (soprannominato Er Canaro), per poi prenderne le distanze e descrivere una drammatica parabola personale ambientata in una terra di confine senza padroni o nome, reale e fantastica allo stesso tempo. Dogman ricorda fin troppo un villaggio del vecchio West, con la sua piazza e le sue strade, i locali dove tutti si ritrovano a bere e giocare, il dominio della legge del più forte, lo scontro non tanto tra gli uomini ma tra valori e istinti primordiali. C’è anche il cattivo che semina indisturbato il terrore: Simone è un pugile drogato, violento e ladro. Nei suoi crimini coinvolge il docile Marcello (da cui compra la cocaina), uomo tranquillo e benvoluto, proprietario di una toilettatura per i suoi amati cani. Un legame funesto che, inevitabilmente, condurrà entrambi alla tragedia.

Con Dogman, Garrone evita il prevedibile, spiazza continuamente e lascia da parte la violenza fisica (ce n’è molta psicologica), ricercando nel rapporto tra i due protagonisti qualcosa di intimo e profondo, che trasforma il film in un mix di generi raramente sperimentato. È una riflessione sulla natura umana, messa in scena così magistralmente che fa paura, soprattutto per come rappresenti perfettamente la parte migliore del pubblico allo stesso modo di quella peggiore. Merito anche di Marcello Fonte ed Edoardo Pesce: il primo, con la fisicità, lo sguardo che parla più delle parole e la naturalezza del suo Marcello, ci riporta al cinema di strada del Neorealismo; il secondo (non nuovo ai ruoli da villain) annulla sé stesso in Simone, bestia senza branco o buonsenso che provoca subito disagio e frustrazione in chi lo guarda.

Alla maniera di un abile Esopo, Garrone narra una favola amara immergendosi in Marcello e nel suo mondo. Guardatelo, perché è un’esperienza imperdibile, perché si trova dovunque: Netflix, Disney +, Raiplay, Sky e Now (a noleggio su Prime, Apple Tv e Timvision). E dopo tornate qui a leggere la nostra analisi.

SECONDA PARTE: L’analisi di questo gioiellino chiamato Dogman

L’essere umano è un animale sociale e, sebbene la solitudine gli permetta di conquistare indipendenza e autonomina per sopravvivere con le proprie gambe, avrà sempre bisogno del branco. Un’eterna battaglia, quella tra bestialità e umanità, che si innerva nelle crepe di Dogman. Marcello è un uomo mansueto, che conduce una vita modesta e trascorre le giornate con i cani e la figlia. Arrotonda vendendo cocaina, ma definirlo uno spacciatore ci resta difficile per la sua natura così lontana dalla nostra idea di criminale. Grazie a questo, però, si avvicina a Simone, quel “pistolero” che sta mettendo a ferro e fuoco l’intero quartiere. I due non potrebbero essere così diversi, eppure è ciò che fa sì che si completino a vicenda: a Simone serve Marcello per la droga e per avere qualcuno da sopraffare senza che si ribelli; quest’ultimo non ha davvero bisogno di Simone, perché lo tratta sempre male, ma solo con lui riesce a sentirsi invincibile.

Marcello, infatti, incarna l’ingenuità, l’umiltà e la miseria; Simone l’ira, la ferocia e la violenza. E tutti e due risultano perdenti, che reagiscono in modi diversi alla sconfitta in Dogman.

Simone sa di poter tenere sotto scacco Marcello, chiedergli ogni cosa senza opposizione, costringerlo a partecipare a un furto o rimandare i pagamenti della droga, perché il secondo è di indole paurosa e ciò lo porta ad accontentarsi delle briciole lasciate dal padrone. Proprio come un cane.

Simone, però, esagera in Dogman. I cittadini, esasperati dal giovane ormai fuori controllo, si ritrovano al bar discutendo la seria possibilità di ucciderlo. Ma non succede; Garrone stesso, seminando indizi lungo il film e ribaltando i cliché del western, ci invita a escludere questa possibilità. Infatti, solo apparentemente c’è la comunità buona vessata da un cattivo da essa staccata. Quest’ultima trae vantaggi da Simone, che ne risulta un ingranaggio ben funzionante. Ad esempio l’ex pugile gioca d’azzardo e quindi spende tantissimi euro alle slot machine che fanno arricchire il gestore della sala. Oppure è uno dei clienti più fedeli del Compro Oro del paese: al titolare poco importa da dove provengano i gioielli che gli porta, non fa domande limitandosi a svolgere il suo mestiere. A sua volta, la dipendenza di Simone permette a Marcello di guadagnare qualche soldo in più da impiegare nelle vacanze con la figlia. Lì, in quelle immersioni che rappresentano un momento di fuga dal desolante far west della sua miserabile vita.

Dogman

Ma per Marcello non è solo una questione economica.

Sebbene le vessazioni quotidiane in Dogman, l’uomo si oppone all’omicidio non solo perché è inconcepibile per lui, ma anche perché è così sottomesso a Simone da aver paura di essere altro se non un cane al guinzaglio. Non sappiamo se davvero abbia mai subito violenza fisica dall’uomo, ma deduciamo che la sua sudditanza è soprattutto psicologia e Marcello non riesce ad affrontarla, né a immaginarsi o imporsi di cambiare il proprio status. A opporsi al gesto estremo c’è anche Franco, l’orafo. Lui, invece, non vuole proprio prendersi la responsabilità dell’uccisione, affermando in maniera impassibile: “Io aspetto, prima o poi qualcuno lo ammazza”.

Effettivamente due sconosciuti a bordo di un motorino gli sparano, ferendolo ma non uccidendolo, proprio grazie all’aiuto di Marcello. Ecco che, dopo essersi vendicato, i due se ne vanno in un locale a luci rosse, dentro il quale Marcello può perdersi e dimenticare chi è, come nelle immersioni ma in modo diverso. Infatti, smarrisce la sua identità in quella di Simone, che per una volta non lo fa sentire un cane in trappola e lo rende quasi un suo pari. E noi veniamo lanciati nel cuore della festa attraverso i piani sequenza e i lenti movimenti di macchina attorno ai protagonisti, pedinandoli da molto vicino per catturarne ogni gesto.

Purtroppo si tratta solo dell’idillio di una notte. Simone, infatti, mette a segno una rapina al Compro Oro, il cui muro è adiacente a quello del negozio di Marcello. Quest’ultimo potrebbe denunciarlo, così da concludere il processo di esclusione ai danni di Simone, ma la vicinanza che sfocia nell’immedesimazione, unita alla paura, lo porta a proteggerlo. Non cede nemmeno di fronte alle terribili ripercussioni della galera. Tuttavia, le conseguenze del suo gesto si trasformano nel suo peggior incubo e un uomo che prima era amato (come dice lui stesso) rimane escluso dal branco.

È lui quello a essere rimasto senza sedia nel gioco della vita.

I suoi vecchi amici lo insultano e lo abbandonano. Simone lo ignora, lo tiene distante e non gli dà nemmeno la metà dell’incasso della rapina che gli aveva promesso. È un emarginato, anzi una carogna che riceve affetto solo dalla figlia e dai cani. Nemmeno le immersioni sono più efficaci, specie dopo il pestaggio di Simone ai suoi danni, che gli ha portato via l’unico momento in cui era libero. Perché la realtà la porta in faccia, perché gli manca il respiro a causa delle botte ricevute. E allora prova a rientrare in società e a ottenere ciò che gli spetta da Simone in Dogman, a ripristinare lo status quo dove lui era amato e la sua nemesi odiata. Vuole ingannarlo esattamente come aveva fatto lui, attirandolo in una trappola.

Vuole delle scuse perché Simone è la causa dei mali del suo mondo. Non le pretende perché è moralmente giusto, ma per ristabilire una differenza tra loro due e riprendersi il suo posto in Dogman. Il problema è che la violenza non si può controllare così; la si ferma solo con il sangue. Inizia un’escalation sempre più brutale in cui i due lottano per la sopravvivenza e chi trionferà ne uscirà comunque da sconfitto. Noi siamo chiamati a vivere lo scontro in prima persona, grazie ai primi piani su volti dei protagonisti. Allo stesso modo del locale a luci rosse, la camera ci avvicina tantissimo a Marcello e Simone, chiusi in quello spoglio e freddo negozio in cui combattono per la vita. Quasi come se quel cane ringhioso che ha aperto il film anticipasse questa violenza.

Vince lo sfavorito, aprendo la strada alle significative scene finali di Dogman.

Dogman

Dopo aver dato fuoco al cadavere di Simone, Marcello corre dagli amici per informarli della sua impresa. Lui, un piccolo e insignificante uomo, è riuscito a sconfiggere il mostro e liberare tutti dalla sua ingombrante presenza. Ora è il momento di gioire per la vittoria, perché finalmente Marcello può accomodarsi nuovamente tra loro. Ma viene completamente ignorato. Allora dissotterra il suo trofeo e lo porta davanti ai loro occhi, cosicché i suoi concittadini vedano la verità. Però se ne sono tutti andati. E allora con l’ultimo sforzo, se lo carica sulle spalle e percorre la sua via crucis fino alla piazza. Lì dove si ferma, solo e stremato.

Dogman (tra i film italiani migliori su Raiplay) risulta dunque essere una fiaba diversa, che ci fa toccare la miseria così profondamente che ne usciamo diversi, che non ci fa gioire per la morte del villain perché il prezzo per l’eroe è stato troppo alto. Marcello sogna, ma si accontenta; respira solo sott’acqua; uccide gli uomini e salva gli animali da morte certa: è l’emblema della nostra natura contraddittoria. Prova a fare il lupo per sentirsi meglio, ricevendone in cambio solo schiaffi e dolore. Non riesce a piangere nel finale perché si sa, i cani non piangono. Al massimo ululano. E sono i primi piani costantemente usati da Garrone che ci permettono di scavare dentro di lui, vedere con i suoi occhi e assimilare la sua visione del mondo. Impossibile da giudicare perché, del resto, Marcello siamo noi.

La sua favola, la nostra favola è finita. Non ci è dato sapere come continua, ma una cosa è certa: sarà senza lieto fine.

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