È stata la mano di Dio è stata una piacevole sorpresa di questa fine del 2021, un regalo che è stato consegnato dal regista Paolo Sorrentino a tutti noi che abbiamo scelto di concederci questo tempo, lasciandoci trasportare dalle sue parole, suggestioni e racconti. L’abbiamo visto arrivare prima in tutte le sale e poi sulla piattaforma streaming di Netflix, raccogliendo ovunque numerosi spettatori, incuriositi dalle atmosfere che già il trailer ci aveva fatto pregustare. Ci troviamo davanti a un film sicuramente diverso da quelli che hanno popolato la cinematografia di Sorrentino negli anni: addirittura potremmo considerare È stata la mano di Dio (qui la nostra recensione) un racconto in perfetta antitesi ai sentimenti leggeri e briosi e ai particolari saturi di bellezza dei precedenti lavori. Anzi, al contrario, questa storia prende le distanze dall’edulcorazione della realtà per abbracciare invece la realtà nella sua accezione più cruda e dolorosa possibile. Sorrentino ci confida la parte più intima della sua esistenza: il suo passato e tutto il dolore che porta con sè.
Siamo a Napoli, un dettaglio che diventa il cuore del racconto: dalle prime inquadrature, capiamo quanto la città partenopea sia un elemento imprenscindibile dello spaccato di vita a cui ci stiamo avvicinando. Il folkore della tradizione della città assume anche contorni grotteschi, come già altre pellicole prima di queste ci hanno mostrato, eppure non riusciamo a distogliere lo sguardo da questa assurda combinazione di colori e fascino. Fabietto Schisa, nome scelto dal regista per il suo stesso alter-ego è interpretato dall’attore esordiente Filippo Scotti, vincitore del Premio Mastroianni 2021. Dopo sole due sequenze in cui lo vediamo protagonista, capiamo che nessuno avrebbe potuto impersonare meglio di lui un Sorrentino adolescente, folgorato da continue suggestioni, dalle sensazioni nuovi che si affacciano durante la pubertà, dagli sguardi che corrono veloci e vogliono posarsi in ogni dove.
Insieme a suo fratello e sorella, vive al Vomero con mamma e papà – l’attrice Teresa Saponangelo e l’attore Toni Servillo – e come tutti i cuori partenopei, sogna l’arrivo del fuoriclasse argentino, Diego Armando Maradona, al Napoli. Lui però più di tutti sembra riporre fiducia in questa venuta quasi messianica e, nel mentre, continua a vivere la sua vita con la goffaggine di un giovane ragazzo che tenta di capire come funziona il mondo dei grandi, sbattendo contro un muro invalicabile fatto di mezze bugie, una sessualità ancora inesplorata e certezze insormontabili. Ogni sequenza di questo film è un fotogramma che pullula di vita e riflessioni e in alcune di queste Sorrentino ha toccato delle punte di estrema vividezza, al punto da meritare qualche parola in più al riguardo.
Ecco i 5 momenti più emozionanti di È stata la mano di Dio, il film che racconta la vita di Paolo Sorrentino:
1) La scoperta della morte dei genitori
Una doverosa premessa prima di iniziare: non intendo procedere con la creazione di una classifica, per cui i momenti che di qui in avanti verranno menzionati non devono considerarsi di minore o maggiore intensità rispetto a quelli che seguono o che li precedono. Parliamo di sequenze particolarmente eloquenti e colorite di differenti sensazioni e che, proprio per il valore diverso che hanno, possono considerarsi importanti ai fini della storia.
Uno dei momenti fondamentali, oltre che drammatici, della vita di Fabietto è la perdita dei suoi genitori, da cui deriveranno prese di posizione e decisioni future estremamente drastiche e fortemente sentite. Qualcosa ce l’aveva fatto tristemente intuire ma non eravamo pronti a ciò che ci sarebbe stato raccontato e all’intensità dell’interpretazione che ci ha penetrato con una tale forza da lasciarci senza fiato e parole. Perché dinnanzi a una simile tragedia, raccontata senza filtri o fronzoli, non possiamo che lasciarci sopraffare, nonostante magari non ci sia mai capitato di vivere tali emozioni in prima persona. Il portato autobiografico del film è una costante de È stata la mano di Dio ma forse è proprio questo il punto di rottura con il disincanto e il sodalizio con la parte più intima, consumata dalle perdite e dalle mancanze che mai più potranno essere colmate.
I suoi genitori partono per trascorrere qualche giorno nella nuova e tanto desiderata casa di Roccaraso ed è proprio lì che incontrano il loro crudele destino: una fuga di monossido di carbonio li uccide lentamente nel sonno e Fabietto improvvisamente non è soltanto un adolescente in preda agli ormoni e ai dubbi esistenziali ma è anche un orfano, che dovrà imparare ad andare avanti senza l’Amore dei suoi genitori. In pochi istanti, Fabio lascia che tutta la sua disperazione venga vomitata nel mondo circostante: le sue urla ci squarciano il petto, chiede di vederli per un ultima volta ma non gli è permesso farlo.Si dimena, sembra sia sul punto di impazzire ma comunque non riesce a concedersi un ultimo momento per salutare i suoi genitori. Questo è il punto di svolta della sua esistenza: Fabio perde la sua bussola interiore, non sa darsi pace e sente di non poter più aspirare alla felicità.
C’è un solo motivo se quel giorno Fabio non era lì con loro: Maradona, quest’uomo dall’aura divina che gli ha impedito di partire e lo ha salvato da una morte certa. È la sua la Mano, quella di un Dio pagano: un idolo tanto atteso che si è trasformato in un Messia capace di portare persino la salvezza per chi ha tanto creduto e avuto fede nel suo arrivo. Dopo tutto, Fabietto capisce che la sua vita non merita di abbracciare il baratro della solitudine, della stasi, dell’apatia interiore ma ha bisogno di esplodere, di registrare la bellezza del mondo e provare a ricominciare, ma senza dimenticare, al contrario trasformando in arte e poesia tutto ciò che è stato e che mai potrà essere cancellato. Parte, forse guardando fuori dal finestrino immagina il suo Cinema e noi ci chiediamo cosa abbia in mente.
2) Il dialogo con il regista Capuano
Poco prima che il film si concluda, assistiamo ad un dialogo di forte trasporto: Fabio segue il regista Capuano fuori da un teatro, dopo che ha appena demolito la recitazione di una giovane attrice nel mezzo dello spettacolo, e gli racconta il suo desiderio di voler fare Il Cinema. Le parole corrono veloci, l’uomo sembra restio ad intraprendere una conversazione con lui, pensa che sia soltanto uno dei tanti ragazzetti con un mucchio di cavolate da dire a voce alta e poi lasciare che rimangano sospese a mezz’aria. Fabietto però cattura la sua attenzione e piano piano gli strappa un pensiero dopo l’altro. In conclusione, la poetica del film è racchiusa in questi minuti che precedono l’epilogo: ”Hai qualcosa da dire? E dilla”. Capuano insiste, gli urla contro per cercare di smuovere la parte più vivida dell’interiorità del giovane. Vuole che il suo diventi un bisogno, non solo una velleità, e che di questo possa chiunque averne l’impressione. Fare cinema significa conflitto, scontro continuo, ambizione ma soprattutto spogliarsi, mettere a nudo la propria anima e lasciare che tutti possano vederla.
“La realtà è scadente” e non basta più, o per lo meno per Fabietto non è un palliativo abbastanza forte da distrarlo dal dolore che si porta dentro. Il consiglio che Capuano sente di potergli dare è uno soltanto: “Non ti disunire mai! “. Adesso che è rimasto senza una famiglia né una reale regione per restare a Napoli, la sua città, il Maestro gli suggerisce di non andare a Roma ma di andare a trovarlo, per poter finalmente fare il Cinema. Poi, dopo questo suggestivo scambio sulla riva del mare, si tuffa, lasciandosi trasportare dalle onde della sua amata terra natia. Non disunirti è un riferimento alla necessità di non perdere la propria essenza, un’unita interiore imprescindibilmente legata alle sue origini e alimentata costantemente da ciò che è Napoli. Il cineasta napoletano lascia andare i suoi fantasmi, qualcosa da dire ce l’ha, anzi, ormai è un fiume in piena e ci consegna ciò che i suoi occhi vedono: il suo essere artista giunge a compimento.
3) L’incontro con zia Patrizia nella casa di ricovero psichiatrico
Uno dei rapporti più ambigui e allo stesso tempo sentiti di tutta la storia de È stata la mano di Dio è quello tra Fabio e zia Patrizia, sorella della sua mamma. Questa donna rappresenta la principale porta di accesso al mondo di Sorrentino de È stata la mano di Dio, perché è il primo personaggio di cui facciamo conoscenza. Sin dall’inizio, siamo messi di fronte ad una certa impenetrabilità che si esprime attraverso la provocazione di cui questa donna è simbolo: sensuale e senza pudore, Patrizia è, allo stesso tempo, dotata di una sensibilità diversa, più profonda e dunque vulnerabile. Fabio, nei suoi primi scombussoli ormonali, sente una forte attrazione per lei, desidera il suo corpo (tant’è che durante la sua prima volta pronuncia il suo nome prima di giungere al culmine del piacere) ed è incantato dal velo di malinconia che la circonda, mentre cerca di scoprire cosa ci sia al di là di tanta fragilità.
Una delle sequenze più intense avviene nella casa di cura in cui Patrizia è rinchiusa: racconta che dopo l’incontro con o’munaciello e aver avuto una violenta lite con suo marito, è riuscita a restare incinta, esaudendo il suo desiderio più grande che però ha avuto vita breve perché è bastata un’altra litigata a cancellare tutto con un aborto spontaneo. L’unico sollievo per lei possibile era quello di allontanarsi dalla sua realtà, fuggire lontano e scegliere di trascorrere in solitudine il resto della sua vita. Fabio va a farle visita e si trova davanti una donna diversa ma, allo stesso tempo, sempre uguale: capace di guardare al di là delle apparenze, di scovare il mistico che c’è nel mondo e di credere che la realtà nasconda qualcosa che solo certi occhi sono in grado di cogliere. Quelli di Fabietto, ad esempio, hanno una straordinaria percezione del mondo ed è per questo che Patrizia, dopo la morte dei suoi genitori, gli dice con estrema sincerità “vuol dire che non è il momento”, una frase quasi scontata ma che ricorda a Fabio di non doversi seguire inadeguato se il suo dolore non è esternato come quello di tutti gli altri. Perchè non significa che sia un dolore più o meno autentico, ognuno è diverso e proprio per questo pretendere di somigliare agli altri è un fallimento già in partenza.
Fabio non ci pensa neanche troppo e le rivela che il suo sogno è da folli ma nessuno potrebbe capirlo meglio di lei: fare il regista di film, per lui, significa evadere dalla realtà e accedere ad un mondo in cui tutto è possibile, senza essere tacciati di follia. Le persone come loro al cinema possono essere libere senza avere paura del giudizio di chi non sa vedere la realtà oltre ciò che è materiale e tangibile. Fabio ha creduto a sua zia Patrizia, da sempre, perché più di tutti sono anime affini, sanno riconoscersi e sanno anche di non doversi nascondere.
4) Il pranzo di famiglia
Sorrentino, attraverso È stata la mano di Dio, ci regala un ritratto di Napoli attraverso la diversità dei commensali nella celebre sequenza del pranzo di famiglia nell’attesa di conoscere il nuovo fidanzato della zia di Fabietto, sorella di suo padre. Tutti sono riuniti a tavola in questa sontuosa villa immersa nel verde: maschere di un’atavica commedia dell’arte, famiglie diverse dove vanno in scena apparenza, affetto, discordie ma soprattutto diversità. Ognuno dei commensali, anche solo pronunciando una battuta, definisce la sua personalità in maniera forte e antitetica rispetto alle altre. Due personaggi sinonimo di inadeguatezza sono proprio la signora Gentile e la zia Patrizia, due donne completamente diverse eppure forti nella loro caratterizzazione. Vediamo quanto intenso e confidenziale è il rapporto tra Fabietto e suo padre, fatto di confidenze, di sguardi colmi di stima reciproca oltre ad un costante confronto. Siamo permeati da questa atmosfera sospesa, quasi onirica, che ci ricorda un po’ gli altri progetti cinematografici del regista. La famiglia sembra essersi arroccata a distanza dal mondo, tant’è che i bambini scrutano l’arrivo della coppia usando cannocchiali e richiamando la metafora dell’arrivo del “nemico” esterno, pronto a intaccare il suolo intimo e personale. Si tratta di un microcosmo che ha i suoi squilibri ma continua, come per mezzo di un incantesimo, a godere di vita propria e ad esserne profondamente gelosa.
5) I napoletani guardano Maradona sui balconi
Per concludere questo viaggio fra i momenti più emozionanti de È stata la mano di Dio, non potevamo evitare di menzionare la sequenza in cui i napoletani guardano la partita del Napoli, con in campo il mitico Maradona che provoca l’esultanza di tutti tra urla, schiamazzi, lacrime di gioia e esuberanti festeggiamenti. L’arrivo del calciatore argentino era atteso da tutti come una divinità, una venuta dalle tinte mistiche con tanto di sentimenti religiosi. Sorrentino cerca con i suoi mezzi di raccontare cosa, per la sua adolescenza nel Vomero, abbia rappresento l’acquisto di Maradona da parte del Napoli, le preghiere fatte affinché questo accadesse e la morte scampata proprio per “mano Sua”. In questo preciso momento del racconto, siamo in grado di cogliere la potenza che quest’uomo ha avuto (e continua ad avere anche dopo la sua morte) nella cultura partenopea: un mito da tramandare e una leggenda da onorare. Ecco che il suo goal segnato con la mano, diventa addirittura un atto politico che ha umiliato gli avversari e non un semplice errore di gioco. Maradona chiama a sè Fabietto e lo salva dalla tragedia, gli regala una seconda possibilità e nel frattempo unisce anche ciò che la vita ha deciso di separare e decreta il momento in cui giustizia è fatta.
Sorrentino ce lo racconta come un uomo al di sopra di, un Dio che tutto può, capace di accompagnare Napoli e di plasmarne i destini con la sua sola esistenza.