5) Dancer in the Dark (2000)

Tra i film commoventi più difficili da guardare
Ti piace il musical? Perfetto, allora Dancer in the Dark è una esperienza da fare almeno una volta nella vita. Perché sì, è tecnicamente un musical, ma è il più doloroso, disperato e ingiusto che vedrai mai. Diretto da Lars von Trier (e già qui potremmo chiudere il discorso), il film è interpretato da Björk in un ruolo che definire straziante è riduttivo. E spoiler: se riesci ad arrivare in fondo senza essere emotivamente devastato, o sei un robot o ti sei distratto con il telefono. La storia segue Selma, una donna cieca (o quasi) che lavora come può per racimolare i soldi necessari per un’operazione agli occhi del figlio, così che lui non erediti la sua malattia degenerativa. Vive in una realtà grigia e soffocante, ma trova conforto immaginando la sua vita come se fosse un musical.
Il contrasto tra le scene cantate e la brutalità del mondo reale è il colpo di genio (e di grazia) del film. Ogni canzone è una via di fuga, ogni scena successiva una condanna. Lars von Trier non fa sconti: ti inchioda alla sedia, ti toglie l’aria e ti lascia in silenzio per dieci minuti dopo i titoli di coda. Björk, che dopo questo film ha giurato di non recitare mai più (spoiler: ha mantenuto la promessa), ti entra sotto pelle con una performance così vera da farti male. Bellissimo? Sì. Da riguardare? Solo se sei pronto a non dormire per una settimana (qui trovi ALTRI 8 film talmente intensi emotivamente che non li riguarderei una seconda volta).
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6) Funny Games (1997 / 2007)

Hai presente quei film commoventi ma ambigui in cui pensi “ok, adesso succede qualcosa che ribalta tutto”, e invece peggiora? Funny Games è proprio così. Che sia l’originale del 1997 in tedesco o il remake shot-for-shot del 2007 diretto dallo stesso Michael Haneke (con Naomi Watts e Tim Roth), poco cambia: entrambe le versioni sono esperienze esteticamente perfette, tecnicamente ineccepibili… e psicologicamente devastanti. Ma tipo che ti fanno dubitare del tuo rapporto con il cinema. La trama è (apparentemente) semplice: una famiglia arriva nella loro casa di villeggiatura, due giovani ragazzi educatissimi bussano alla porta, e da lì inizia un incubo. Un horror psicologico, sì, ma senza colonna sonora, senza jump scare e, soprattutto, senza pietà. Haneke non vuole intrattenerti. Ti prende per mano, ti fa accomodare sul divano… e poi ti guarda negli occhi mentre distrugge ogni aspettativa su come “dovrebbe” funzionare un thriller.
Uno dei momenti più disturbanti? Il telecomando. Sì, letteralmente. Se hai visto il film, sai di cosa parlo. Se non l’hai visto, preparati a un momento meta che ti farà sentire sporco, manipolato e anche un po’ arrabbiato. Ecco, Haneke vuole proprio questo: farti riflettere su quanto sei complice di ciò che stai guardando. E ci riesce benissimo. Bellissimo? Senza dubbio. Un’opera d’arte. Ma guardarlo di nuovo? Perché? Per torturarti? Per mettere alla prova la tua sanità mentale? Meglio no. Funny Games si guarda una volta. Poi si ringrazia Haneke. E si cambia genere. Magari una commedia. Con i cani.