5) La Grande Bellezza – Paolo Sorrentino
Finisce sempre così. Con la morte. Prima, però, c’è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento. L’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo. Bla. Bla. Bla. Bla. Altrove, c’è l’altrove. Io non mi occupo dell’altrove. Dunque, che questo romanzo abbia inizio. In fondo, è solo un trucco. Sì, è solo un trucco.
La Grande Bellezza
Non esiste nessun film che faccia più discutere gli amanti del cinema come La Grande Bellezza. Chi lo ha amato lo difende a spada tratta, e chi lo ha detestato lo svilisce come un tentativo fallito di rievocare Federico Fellini. Io faccio parte della prima fazione, quindi forza: sfogatevi. Sono pronta, e anche abbastanza abituata.
L’opera di Paolo Sorrentino, candidata e vincitrice di un Oscar (non lo dico per portare acqua al mio mulino: conosco il controverso mondo dell’Academy), è stata per me amore a prima vista. Non poteva che essere così, d’altronde. Dentro di sé vivono una serie di ingredienti che fanno rima con tutto quel che io mi aspetto di trovare in un grande film. L’impatto è stato così immediato, e mi ha permesso di apprezzare – visione dopo visione – ogni frammento di questa pellicola. Come quella solitudine esistenziale di Jep. Il suo essere solo in mezzo a una massa di individui che festeggiano la vita, mentre lui si serve solo del loro rumore per non pensare troppo. Un film che sì, riprende il cinema di Fellini, ma senza mai volerlo scopiazzare o riproporre in chiave diversa. Sorrentino non ha mai emulato. Al contrario, ha omaggiato.
Lo ha fatto parlando di una Roma inerme che, durante la notte, osserva una piccola cerchia di persone scappare altrove. In mezzo alle luci che confondono e mistificano, falsificando una realtà che è molto meno gloriosa di quel che quelle feste raccontano. La Grande Bellezza è stata per me come una luce che illumina tutto quello che hai sempre portato dentro, ma che forse non eri ancora in grado di affrontare. Una pellicola sviscerale e sublime che dice tutto, ma che esprime ancor di più con i suoi non detti. E’ il non detto, d’altronde, quel che caratterizza Jep. Tutte quelle cose che per anni, durante il suo blocco di scrittura, non è mai stato capace di dire. Come quella nostalgia che sempre portato silenziosa dentro di sé, senza mai aver il coraggio di ammetterla.
Anche se gli anni passano e i film da vedere emotivamente distruttivi aumentano sempre di più, La Grande Bellezza restarà oggi e per sempre uno dei miei prediletti. L’opera che più mi ha fatto capire quanto il cinema contasse per me, e di quanto io ne avessi bisogno per capirmi e per ricordarmi che facciamo tutti parte della stessa festa, a cui ci presentiamo con le stesse intenzioni di Jep: fermare, per un attimo, quel nichilismo che ci scorre nelle vene. E aspettare di essere leggeri, almeno fino a quando le luci non si spegneranno.
6) La leggenda del Pianista sull’Oceano – Giuseppe Tornatore
Perché, perché, perché, perché, perché. Mi sa che voi sulla terra sprechiate troppo tempo a porvi troppi perché. D’inverno non vedete l’ora che arrivi l’estate, poi d’estate avete paura che ritorni l’inverno. Per questo non vi stancate mai di viaggiare, di rincorrere il posto dove non siete: dove è sempre estate. Non dev’essere un bel lavoro
La Leggenda del Pianista sull’Oceano
Quando ho parlato de La Migliore Offerta, ho fatto riferimento a due film di Tornatore. Il primo, di cui abbiamo già discusso, e un secondo di cui non ho detto il titolo. Ed eccolo qui: La Leggenda sul Pianista dell’Oceano. Un film completamente diverso da La Migliore Offerta, che ho visto soltanto poco tempo dopo aver guardato il primo. Un’opera mastodontica in cui ho potuto ancora una volta apprezzare l’anima e i tormenti che Tornatore ha voluto trasformare in un film. Dopo la, per me, deludente pellicola La Corrispondenza, Tornatore mi ha fatto ricredere con questa opera sontuosa ed eterna. Una di quelle che ti entrano dentro e non ti lasciano più, facendoti vivere dentro le sue legittime riflessioni. Perché è vero che ci chiediamo sempre un perché, e che vogliamo sempre essere lì dove non siamo.
Degli esseri umani insopportabili, che soltanto una persona non abituata alla nostra ordinarietà può guardare nella loro realtà. Senza romanzarci o decorarci con dolci giustificazioni. La Leggenda del Pianista sull’Oceano è un film che ti cura la sopravvivenza, che ti stringe nella sua morsa fintamente delicata per poi spiattellarti davanti la realtà della tua mediocrità. Un film che ti prende in giro in modo poetico, mostrandoti peculiarità che hai sempre creduto – forse – speciali, e che invece non sono altro che condanne. Perché voler essere sempre lì dove non si è, è una condanna. Non puoi inventarti un posto perfetto. Non esiste. Devi crearti il tuo spazio, perché il tuo unico posto è quello. In mancanza di quest’ultimo, non starai bene mai da nessuna parte.
Pià o meno è per questa ragione che per me il cinema rappresenta una specie di saggio socio-culturale. Ti fa venire a contatto con tutto questo. Gli altri, te stesso, vizi da cui non sappiamo liberarci e virtù di cui a volte neanche ci rendiamo conto. E questa pellicola racconta tutto ciò con una delicatezza che soltanto la storia di un dimenticato potrebbe raccontare in questo modo. Perché è libero da qualsiasi preconcetto, gabbia interiore o dramma che ogni giorno noi mettiamo di fronte alla nostra persona, rendendoli più importanti di qualsiasi altra cosa. Un film straordinario, supportato dal grandissimo Tim Roth, uno degli attori più grandi del panorama cinematografico ma, chissà perché, ancora tremendamente sottovalutato.