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5 film di 5 registi svedesi da vedere almeno una volta nella vita

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Murnau, Fellini, Almodòvar, Kieslowski, Truffaut, Von Trier: l’Europa non ha nulla da invidiare in quanto a talento rispetto ai più dominanti registi americani. Ogni nazione del Vecchio Continente porta con sé nomi prestigiosi, entrati ufficialmente nella storia del cinema dell’ultimo secolo e riconosciuti a livello internazionale. La Svezia non fa eccezione. Sicuramente il nome di Ingmar Bergman non vi è nuovo, ma accanto a lui ci sono altri registi svedesi, anche giovani, che hanno vinto premi importanti e hanno diretto film da vedere per la loro particolarità e per la loro originalità di idee e trama. E non sono stati da meno neanche sul piccolo schermo: Clark di Jonas Åkerlund ne è un esempio chiarissimo, così come The Playlist e Love and Anarchy (di serie tv svedesi ne abbiamo parlato anche qui).

Bergman, con la sua personalità tormentata ma geniale, ha fatto da apripista a un’intera generazione, ed è proprio il maestro a iniziare la lista di quelli che, secondo noi, sono i 5 film da vedere almeno una volta nella vita, diretti da registi svedesi.

1) Il posto delle fragole di Ingmar Bergman (1957)

Nella lingua svedese esiste una parola precisa, cioè bergmansk, per indicare qualcosa inerente al regista svedese e ai suoi film, ad esempio bergmansk ångest (ansia bergmaniana). Un aggettivo che viene utilizzato anche per definire concetti più generali e universali. Questo per farvi capire quanto questo artista sia stato importante per la cultura svedese oltre che per la storia del cinema del ‘900. La sua carriera vanta numerosi film pluripremiati e considerati pietre miliari, imitati da tanti ma mai eguagliati. Basti pensare a Il settimo sigillo.

Il posto delle fragole del 1957 è un altro dei suoi capolavori. La trama coincide con un viaggio in macchina reale ed esistenziale, da Stoccolma a Lund, in cui un anziano professore di medicina, Isaak Borg, accompagnato dalla nuora, ripensa alla sua vita e ai suoi fallimenti. Ma anche alla sua infanzia e giovinezza. Quest’ultima viene approfondita e rappresentata in una sequenza agrodolce, in cui il protagonista ripercorre la sua adolescenza, simboleggiata dalla casa dove trascorreva le vacanze estive. Un luogo bucolico, dove vede i suoi famigliari com’erano allora, tra i quali la madre e la cugina di cui era innamorato.

Questo film è un viaggio nella memoria, nei ricordi, nei pensieri interiori del professore. È un’esplorazione e una riflessione sul concetto di tempo. Surreale la sequenza iniziale, ambientata in un paesino in cui tutti gli orologi sono privi di lancette. Un sogno del protagonista che presto diventerà realtà. La morte di Isaak infatti è vicina e l’eternità è l’unico momento della nostra vita in cui il concetto di tempo non esiste. Ma c’è una sfumatura di ottimismo, perché senza la vecchiaia non esisterebbe la consapevolezza di aver vissuto, né la ricchezza di tutte le esperienze fatte durante la propria vita.

2) Fucking Åmål – Il coraggio di amare di Lukas Moodysson (1998)

Sul piccolo e grande schermo abbiamo visto diversi modi di raccontare l’amore omosessuale. Avete in mente Ian e Mickey di Shameless? Loro sono un esempio perfetto di virtuosa rappresentazione dell’amore queer. Non a caso la loro coppia è tra le più amate e meglio riuscite tra quelle viste in una serie tv.

Ma allontanandoci dalle produzioni americane, anche il regista Lukas Moodysson, qui al suo primo lungometraggio, ha saputo riscuotere un grande successo tramite questo film del 1998. Le protagoniste sono Agnes ed Elin, due compagne di scuola che vivono nella cittadina svedese di Åmål. Hanno personalità diverse: la prima è schiva, solitaria, introversa ed è segretamente innamorata dell’altra, che invece è carismatica, sicura di sé, inquieta.

Le due ragazze inizieranno una difficile ma sincera storia d’amore, nonostante l’ottusità del paesino di provincia, che contribuirà a creare pudore e pregiudizi, per qualcosa che invece dovrebbe essere assolutamente personale e soggettivo. Una commedia agrodolce, magistralmente scritta e interpretata, in cui vengono toccati temi importanti quali la solitudine dell’adolescenza, il sentirsi inadeguati, il rapporto complicato con i propri genitori e l’espressione dell’amore in un’età così vulnerabile e piena di cambiamenti.

3) Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza di Roy Andersson (2014)

Se non avete mai visto un film di Roy Andersson, è giunto il momento di recuperare. Noi vi consigliamo questa pellicola del 2014 perché non è solo un racconto per immagini e dialoghi come avviene in qualsiasi opera cinematografica, ma è un insieme di quadri viventi. 39 piani sequenza, per essere precisi, in cui le figure umane prendono vita, inquadrate sempre da un’unica cinepresa frontale e fissa. Un unico punto di vista quindi per noi spettatori, e un segno distintivo di questo regista svedese. Il suo stile è veramente inconfondibile, perché mentre siamo davanti a una sua opera, ci chiediamo se stiamo guardando un film, uno spettacolo teatrale o, appunto, un quadro o un affresco.

Inoltre Roy utilizza spesso una gamma cromatica molto precisa, costituita dai toni freddi del grigio, dell’azzurro chiaro, del verde oliva e dei marroni, inserendo molto raramente colori più vivaci e accesi, come il rosso o il giallo.

Questo lungometraggio fa parte di una trilogia in cui il regista svedese ha posto una riflessione piuttosto forte sulla società e la miseria umana, sulla morte e sulla monotonia della vita quotidiana. Alcuni quadri viventi sono un pugno nello stomaco, altri sono ricchi di tenerezza e di nostalgia ma tutti, nessuno escluso, vengono sottilmente descritti con un’ironia tragicomica. Alcuni sono surreali: il re Carlo XII che si ferma in un bar a bere una birra, con tanto di cavalleria al seguito. O dei colonialisti che si servono di schiavi per muovere un grosso macchinario, di fronte ad alcuni aristocratici che assistono allo spettacolo freddamente, bevendo Champagne.

E in tutto questo il piccione del titolo cosa fa? Ci osserva. Ci guarda affannarci dietro a giornate spesso prive di senso, rincorrendo un lavoro che detestiamo, piegandoci al capitalismo più feroce.

4) Triangle of Sadness di Ruben Östlund (2022)

Questo film, da vedere assolutamente se non lo avete ancora fatto, ha vinto la Palma d’Oro al 75° Festival di Cannes. La trama vede protagonisti una coppia di modelli, Carl e Yaya, che vincono un viaggio extra lusso in crociera, su uno yatch pieno di straricchi dai volti plastificati dalla chirurgia. Non a caso il “triangolo della tristezza” sono le rughe che corrono parallele tra le due sopracciglia, a sottolineare come un’estetica perfetta sia l’unica ragione di vita di un certo tipo di classe sociale. Ma accanto a loro c’è il comandante, con un debole per Karl Marx e per gli alcolici, assieme a tutto l’equipaggio di cuochi, camerieri e persone appartenenti a un’altra estrazione sociale.

Östlund è stato bravissimo a giocare con ironia, sarcasmo e una giusta dose di cinismo, su tutti i difetti della civiltà occidentale borghese, ribaltando i ruoli quando i personaggi si ritrovano naufraghi su un’isola. Chi riuscirà a cavarsela e chi no? La risposta ovviamente è molto semplice e cristallina: se la caverà solo chi sa fare le cose. Coloro che sono e non che possiedono. Per questo sarà la donna delle pulizie ad ergersi a capo del gruppo, perché sa pescare il pesce, sa accendere un fuoco…insomma, sa stare al mondo, cosa che chi ha molti soldi e poco pragmatismo, ha sempre delegato ad altri.

Questo film da vedere per le risate amare, ci porta anche a fare una riflessione sul denaro, sulle gerarchie, sui condizionamenti sociali, sulla rivincita degli oppressi. Tematiche sempre care agli svedesi e che trovano nel cinema una delle loro massime espressioni.

5) The Store di Ami-Ro Sköld (2022)

La regista Ami-Ro Sköld è stata di una lucidità notevole nello scrivere e dirigere questo film da vedere e memorizzare, per non rimanere indifferenti.

Il motivo di questa presa di posizione così decisa risiede nell’idea e soprattutto nel come è stata concretizzata. Perché The Store non è un film in cui vediamo recitare unicamente attori in carne e ossa: questi ultimi vengono sostituiti e alternati da dei pupazzi di cera grotteschi, deformi, quasi sgradevoli da guardare. Ma tutto è voluto, niente è lasciato al caso o alla superficialità, perché noi spettatori dobbiamo provare disgusto, indignazione e rabbia nei confronti di ciò che accade durante il film.

Queste persone-pupazzi sono infatti i clienti di un supermercato in cui le condizioni lavorative dei dipendenti sono state peggiorate dai piani alti della gerarchia. Contratti a chiamata, vita personale azzerata, ritmi di lavoro massacranti, disponibilità illimitata, in nome della produttività e del consumo. Insomma, tutte quelle situazioni che alcune generazioni e alcune classi sociali conoscono meglio di altre. Ad aggiungersi a tutto questo ci sono i senzatetto, all’esterno del negozio di alimentari, che frugano tra gli scarti per portare a casa il pasto della giornata. Senzatetto e commessi si trovano così coinvolti in una lotta di classe feroce e insensata, che colpisce sempre gli stessi. Un tutti contro tutti disumano, che ha come scopo uno stipendio da fame e una vita ai limiti della sopravvivenza.

L’affanno in nome del capitalismo, proprio come nel film di Roy Andersson.

Ma qui non c’è più l’innocenza del piccione ad assistere all’assurdità delle nostre esistenze. In questa pellicola ci siamo noi, clienti e dipendenti allo stesso tempo, vittime e carnefici a seconda del ruolo che stiamo impersonando, il particolare che diventa universale. Un Tempi Moderni dei nostri giorni, ma senza ironia.

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