4) Melancholia
È generalmente difficile vedere i film di Lars von Trier più di una volta, talmente sono emotivamente destabilizzanti. Sono consapevole che Dancer in the Dark è uno dei più devastanti ma, non avendolo ancora visto, vado con Melancholia. Brillante, esteticamente meraviglioso e sconvolgente all’ennesima potenza, mi ha succhiato l’anima fino a svuotarla completamente e sono rimasta a fissare il muro di casa mia per un po’. Capolavoro che entra dentro e non se ne va più, è un trattato fin troppo realistico sulla depressione: dall’intorpidimento dell’anima che non riesce più a scaldarsi fino al sostenere gli altri quando la fine è imminente.
Melancholia è un’apocalisse che non offre le solite scene di panico collettivo, ma una profonda e intima inquietudine relegata in due donne. Attraverso loro, Trier descrive la nostra condizione di anime alla deriva e immerse nel disagio di fronte all’unica certezza della nostra vita: la morte. A nulla valgono i miseri tentativi di evitarne il pensiero; non aiuta l’amore, il sesso, la fede, la famiglia, l’amicizia, la ragione, la scienza e via dicendo. Quando la fine si avvicina, preferiremmo non essere mai nati, perché con la morte non abbiamo mai imparato a conviverci. In più, Justine, che spiega la nullità dopo la morte e che la Terra è l’unico posto dov’è presente la vita, è l’ultima coltellata del regista. E no, non è liberatorio per niente.