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Il film della settimana – Gangs of New York

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Tutti abbiamo vissuto quella spiacevole situazione raccontata brillantemente da Zerocalcare in Strappare lungo i bordi: chi non è mai stato ore a scorrere i film sulle piatteforme streaming e non trovare niente da vedere pur avendo a disposizione “tutto l’audiovisivo del mondo” e pensando “è possibile che son tutti film de m*rda”? Certo, la roba bella magari l’abbiamo già vista, altra siamo in ritardo e altra ancora la teniamo per il momento giusto – se arriverà. Vogliamo evitare, però, di finire nella fantascienza polacca del ‘900 in lingua originale, andare a letto frustrati con la nostra coscienza sottoforma di Armadillo che ci costringe a interrogarci su noi stessi dicendo: “Dai su, se su ottomila film non te ne va bene manco uno, forse sei te che non vai bene”. Proprio per questo nasce la seguente rubrica settimanale, in onda ogni lunedì e rivolta sia a chi la pellicola in questione non l’ha mai vista, sia a chi l’ha già visionata e vuole saperne di più: infatti, nella prima breve parte vi consigliamo un film; nella seconda invece ve lo recensiamo, analizziamo o ci concentreremo su un aspetto particolare. E questa settimana abbiamo scelto Gangs of New York.

PRIMA PARTE: Perché, dunque, vedere Gangs of New York? Ecco la risposta senza spoiler

“È la storia di un ragazzo che cerca un padre e di un padre che desidera un figlio, sullo sfondo della Frontiera che diventa città, del western che diventa un gangster movie, con in più un tocco di Guerra Civile e di abolizione della schiavitù”

Così Martin Scorsese descriveva Gangs of New York, un film la cui gestazione durò circa 30 anni e che fu girato interamente a Cinecittà. Mixando Shakespeare, Dickens e Dumas e unendo fantasia e storia (molti personaggi ed eventi erano reali), il pubblico viene portato nella New York del 1846, ancora embrionale, sinistra e selvaggia, dove le scelte sono solo due: sopravvivere o sopraffare. Dopo la sconfitta e l’uccisione del capo della banda irlandese dei Conigli Morti nella battaglia di Five Points, il figlio di quest’ultimo, Amsterdam Vallon, cerca vendetta contro l’assassino del padre e leader dei Nativi, William Cutting, diventato ormai il padrone della città.

Crudo, complesso, epico e pieno di sequenze memorabili (l’inizio e la fine sono da antologia), con ambientazioni e costumi storicamente accurati, un’ottima fotografia e colonna sonora, Gangs of New York si avvale pure di un cast stellare. In particolare, è il primo tassello di una delle migliori collaborazioni di Hollywood, quella tra Leonardo DiCaprio e Martin Scorsese, e sancisce il ritorno sulle scene del fantastico Daniel Day-Lewis (ritiratosi nel 1997 a Firenze per imparare il mestiere del ciabattino), in un ruolo in cui ruba la scena a tutti. Certo, l’ambizioso Gangs of New York disponibile su Netflix (fino al 31/08) e a noleggio su Apple Tv, Amazon Prime Video e Timvison – è lungo e considerato da molti il capolavoro mancato di Scorsese. Allo stesso tempo, però, è assolutamente da vedere, soprattutto per il brillante ritratto etnico e socio-politico della New York delle origini, che diviene metafora di quella attuale. Ed è proprio sulla rappresentazione della città che si concentra la seconda parte dell’articolo.

SECONDA PARTE: L’America delle origini – e non solo – secondo Scorsese in Gangs of New York

Nel corso della sua carriera Scorsese ha rappresentato molte volte la sua amata e odiata New York e, anche se in apparenza le ha cambiato costantemente pelle, nel nucleo è rimasta sempre la stessa. Da Mean Street a The Wolf of the Wall Street, passando per Taxi Driver e Quei Bravi ragazzi, la Grande Mela è per il regista teatro di violenza, perdizione e solitudine.

E se il suo cinema è così crudo e poco sognante, si comprende non solo dalla sua biografia, ma soprattutto da Gangs of New York.

Agli albori la città – e, per ciò che rappresenta, l’intera nazione – è stata fondata nel sangue e nella paura da gangster e criminali, con la vita delle persone decisa da una lama o un pugno, mai totalmente in mano loro. Non c’è spazio per l’innocenza in tutta questa violenza, né per la tradizione hollywoodiana che vuole la nascita dell’America ancorata al mito della conquista del selvaggio West, nel quale sono stati portati i valori puri di libertà, democrazia e giustizia. In Gangs of New York, invece, ci sono le terribili strade dell’East, la Guerra Civile, il valore del Sangue che sostituisce quello della legge, i tanti simboli invece di un’unica bandiera. Perché, come rappresentò in passato Griffith con Intolerance o Nascita di una nazione, sono le contraddizioni interne che hanno formato gli Stati Uniti, non quelle esterne.

È la violenza, dunque, che permea il tessuto americano fin dalle origini. Sanguinosa sì, ma necessaria perché qui non rappresenta la consueta iperbole del regista (come accade in Casinò o in Quei Bravi Ragazzi), ma incarna il pensiero dell’epoca, xenofobo e aiutato dal disinteresse dell’autorità (ad eccezione, come ben mostrato nel film, della campagna elettorale). Al tempo, infatti, era accettata quale mezzo indispensabile per arrivare a uno scopo. Lo stesso principio della guerra, in cui si sa che molti periranno. Un’aria spietata, priva di empatia o sentimentalismo, senza fronzoli, che si respira fin da subito in Gangs of New York, da quell’epica battaglia tra il Padre Vallon di Liam Neeson e il Bill Cutting di Daniel Day-Lewis.

Gangs of New York

Cinematograficamente ciò è resto in due modi.

In primis, c’è lo sguardo anaffettivo di Martin Scorsese che, allontanandosi dalla vicenda, la restituisce in maniera distaccata, imparziale, vera e per questo terribilmente amara. Ed è negli occhi del protagonista che passa questa cinica critica sulla democrazia delle origini, esposta sullo schermo con ferocia, lucidità e un pizzico di grottesco e realismo ironico alla Dickens. In secondo luogo, c’è quella potenza visiva con la quale il regista vuole effettivamente rappresentare lo sforzo e la violenza, fatti di sangue, sporcizia e unto, con quei personaggi pieni di polvere e strade in cui nessuno vorrebbe mai trovarsi (sia per lo sporco, sia per le persone). Emerge la fatica dietro ogni inquadratura, il senso di morte di quell’antica New York, recuperata attraverso flashback, accelerazioni improvvise e lunghissimi piani sequenza.

Ma dietro quella sopravvivenza, senza dignità e non protetta dalla legislazione e della giustizia, si nasconde molto altro.

Essa diventa veicolo di quegli ideali che si radicalizzano nei due schieramenti in Gangs of New York: i Nativi difendono il loro essere fondatori della Patria e sentono che la loro nazione (e di riflesso sé stessi) è minacciata da chi considerano straniero; gli immigrati, come i Conigli, giungono in America in cerca di una vita migliore e, invece, vengono accolti da sputi, calci e insulti. Ecco perché la violenza e la paura sembrano le uniche soluzione e Bill il Macellaio lo esprime perfettamente con queste parole:

«Io ne ho quarantasette. Già, ho quarantasette anni. E lo sai come ho fatto a restare in vita tanto tempo, tutti questi anni? Con la paura. Con lo spettacolo di azioni spaventose. Se qualcuno mi deruba gli taglio le mani, se mi offende gli taglio la lingua, se si solleva contro di me gli taglio la testa, la infilo su un palo e la espongo in alto così che tutta la strada la veda. È questo che preserva l’ordine delle cose… la paura».

Lui stesso, personaggio storicamente esistito e ricordato dalla cronaca come un uomo brutale, incarna il clima che si respirava in quella New York, essendo un ex pugile che organizzava incontri estremi e combattendo per difendere la città dall’immigrazione. La sua poi è una figura enorme, aumentata da quella statura imponente e dalla tuba pronta a tagliare l’aria come fosse una spada. Deve incutere timore e il suo messaggio deve arrivare prima di lui, mostrando negli abiti e nei dettagli – come l’occhio di vetro con la pupilla a forma di aquila, metaforicamente simbolo della sua cecità mentale – la sua superiorità di uomo nativo, bianco, cattolico e xenofobo, in cui la società l’ha plasmato.

Del resto, in una prospettiva più ampia, Bill è l’incarnazione di colui che è stato cresciuto per vivere come meglio crede nella sua patria e, se ciò include la violenza, non ha importanza, perché è la sua nazione a chiederglielo.

Quello che viene rappresentato (grazie anche all’interpretazione di Day-Lewis che imparò a lanciare coltelli e fare il macellaio, oltre a non farsi curare la polmonite contratta durante le riprese per rendere credibile il personaggio) è uno dei villain più temibili e complessi che si possano mai vedere, anche perché non è totalmente crudele: conserva un lato umano, uno strano codice d’onore e, in fondo, è un’idealista dato che lotta fino alla morte per una causa. Si vede subito che non è contento del contesto in cui vive, che sa che la maggior parte dei membri della sua gang non è davvero un nativo, ma semplicemente uomini che si rinnegano per stare con il più forte. E infatti, a staccarsi dal gruppo sarà il più giovane.

Quell’Amsterdam che brama vendetta per l’uccisione del padre.

Il ragazzo che avrebbe più diritto dei Nativi di considerarsi americano – perché ci è nato – ma che, nel più shakespeariano degli esempi, paga per i peccati del padre. Ed è per questo che lotta contro Bill, per riprendersi il diritto di essere americano senza che i fondatori decidono per lui, sentendosi tradito da una mentalità ormai vecchia e superata. Gangs of New York evidenzia questa ambiguità, attraverso immagini che pongono una semplice domanda: chi è davvero lo straniero e chi il nativo?

Gangs of New York

Ecco che, con la morte di Bill avvolto nella bandiera americana e il sotterramento del rasoio di Vallon Senior con ancora il sangue impresso, si ha il passaggio dagli anni dell’orrore e della violenza a quelli della libertà e della democrazia. Piano piano, infatti, nel potente finale (forse uno dei più significativi della storia) New York si trasforma, fino a diventare quella dei giorni nostri. Scorsese, però, decide di fissare l’immagine sullo skyline dell’anno prima dell’uscita del film, ovvero il 2001, quello in cui ci sono ancora le Torri Gemelle. Sono lì a ricordare che la separazione non è finita, l’età dell’odio è arrivata fino a oggi e il rasoio – eredità morale del passato – può essere dissotterrato in ogni istante.

Emerge allora il reale tema di quest’opera imponente, multiforme, che mette a nudo la grande America, forgiata sul coraggio e sulle vite degli emigrati (com’è lo stesso Scorsese). Non è il momento storico a contare, ma la metafora che fornisce per una città tutt’altro che rimasta ancorata al passato: Gangs of New York è terribilmente contemporaneo nel mostrare una società multietnica ma impreparata alla convivenza, che si dichiara democratica ma in fin dei conti non lo è.

Certo, c’è quel sentore di speranza e rinascita nel finale, incarnato da The Hands that Built America degli U2, ma a sua volta conserva l’anima di quei tempi bui seppelliti assieme a Bill, ricordando al pubblico di non dimenticare mai il passato, perché è da quello che si impara a non commettere più errori, come dice lo stesso Amsterdam:

“Per quelli che vissero e morirono nei giorni della Furia, fu come se tutto quanto avevano conosciuto fosse stato spazzato via e qualsiasi cosa sia stata fatta per costruire la città, per il tempo a venire, sarebbe stato come se nessuno di loro fosse mai esistito.” 

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