Tutti abbiamo vissuto quella spiacevole situazione raccontata brillantemente da Zerocalcare in Strappare lungo i bordi: chi non è mai stato ore a scorrere i film sulle piattaforme streaming e non trovare niente da vedere pur avendo a disposizione “tutto l’audiovisivo del mondo” e pensando “è possibile che son tutti film de m*rda”? Certo, la roba bella magari l’abbiamo già vista, altra siamo in ritardo e altra ancora la teniamo per il momento giusto – se arriverà. Vogliamo evitare, però, di finire nella fantascienza polacca del ‘900 in lingua originale, andare a letto frustrati con la nostra coscienza sottoforma di Armadillo che ci costringe a interrogarci su noi stessi dicendo: “Dai su, se su ottomila film non te ne va bene manco uno, forse sei te che non vai bene”. Proprio per questo nasce la seguente rubrica settimanale, in onda ogni lunedì e rivolta sia a chi la pellicola in questione non l’ha mai vista, sia a chi l’ha già visionata e vuole saperne di più: infatti, nella prima breve parte vi consigliamo un film; nella seconda invece ve lo recensiamo, analizziamo o ci concentreremo su un aspetto particolare. E questa settimana abbiamo scelto Her.
PRIMA PARTE: Perché, dunque, vedere Her? Ecco la risposta senza spoiler
Spike Jonze apre le porte di un futuro non troppo lontano in Her (disponibile su Netflix fino al 29/11; a noleggio su Prime, Apple e Chili); lì vive Theodore, un uomo introverso e solo che ancora non ha trovato il coraggio di firmare le carte per il divorzio da un matrimonio ormai finito. Mentre di lavoro scrive lettere d’amore per conto di altri, viene colpito dalla pubblicità di un software di ultima generazione, che si adatta ai bisogni dell’utente e si evolve, e lo acquista. Samantha – il nome che si dà la voce dell’intelligenza artificiale – diviene l’unica in grado di ascoltare e comprendere ciò che prova, finendo lei stessa per condividere con Theodore le sue esperienze e sensazioni. Un rapporto sempre più intimo, che diventerà una vera e propria relazione d’amore.
Sullo sfondo di una Los Angeles nostalgica ma sempre frenetica, Her è un dipinto di un possibile nostro futuro in cui la tecnologia occupa un ruolo primario nella vita delle persone e dove la comunicazione passa totalmente attraverso i computer, gli auricolari, i dispositivi tascabili. Eppure è un film che comunica tantissimo, con la forza delle parole, delle immagini e del silenzio, sulla nostra fragilità e solitudine. Rinnova al tempo stesso il modo di rappresentare i sentimenti al cinema, raccontando diversamente la solita storia, senza mai essere esagerato o irreale, ma dimostrandosi sempre delicato, umano, vero.
Merito dell’ottima regia di Spike Jonze, unita a una sceneggiatura vincitrice dell’Oscar, del Globe e del Critics Chioce Award (e al 17esimo posto delle migliori del 21esimo secolo secondo la Writers Guild of America). L’eccellente colonna sonora si mixa a una fotografia emotiva e alle ottime interpretazioni di Joaquin Phoenix e Scarlett Johansson, che emoziona con la sola voce (in Italia, doppiata dalla bravissima Micaela Ramazzotti). La pellicola cerca per tutta la sua durata di rispondere a una semplice domanda: che cos’è l’amore? Ed è l’amore e la tecnologia che andiamo ad analizzare nella seconda parte del pezzo.
SECONDA PARTE: L’amore e la tecnologia ai tempi di Her
Come il più classico degli episodi di Black Mirror, Her pone l’attenzione sugli effetti che la tecnologia ha su di noi a cominciare dalla sua ambientazione, denominata unknown space. È quello spazio anonimo in cui si originano i sentimenti, i pensieri e la vita, e che piano piano acquista forma e significatività grazie alle esperienze. Lì si muove Theodore, mentre scrive lettere d’amore a persone sconosciute, incapaci come lui di esprimere e filtrare la più piccola emozione – già qui il personaggio di Joaquin Phoenix è un ponte tra tecnologia e umanità, rappresentando allo stesso tempo l’intimità dell’uomo e ciò che si sostituisce a lui per sopperirne mancanze o ottimizzarne i temi. Viene però da chiedere: sono suoi gli stati d’animo che inserisce nelle lettere? Forse in quelle pagine virtuali si lascia andare a quelle emozioni che non si permette di sperimentare, dato che sta tergiversando nel firmare il divorzio dalla moglie Catherine. Eppure, è proprio per evitare di scavare dentro di sé che l’ha lasciata, rinunciando alla cosa più importante per lui: l’amore.
E allora si rifugia in un mondo popolato solo da avatar e cancella ciò che lo disturba e lo infastidisce, sottolineato dal ‘delete informatico’.
L’unico problema è che eliminare i ricordi e i sentimenti a essi correlati è impossibile. Non può semplicemente cancellare la moglie, il che lo porta a rifugiarsi in una vita di rimpianti e di noia, dove interroga compulsivamente il suo software su ciò che accade nel mondo. Ricerca nel virtuale quelle emozioni che un tempo aveva provato, ma può bastare a colmare l’incapacità di amare? Se lo chiede Spike Jonze per tutto il film, ricordandoci sempre che i flashback sono l’unico presente ed elemento vero nell’esistenza di Theodore.
Ecco che, dopo le chat erotiche fallite, arriva nella sua vita il sistema operativo di ultima generazione OS1. Nasce Samantha, un nome che si attribuisce da solo, il che è importante perché dare un nome vuol dire stabilire un’appartenenza. Sembra pure sviluppare una coscienza attraverso lo studio di Theodore e persino l’innamoramento pare voluto dall’intelligenza artificiale di Scarlett Johansson semplicemente per accrescere la sua esperienza; un esperimento autoreferenziale per capire come funziona l’animo umano. E allora può un software avere un’interiorità o una personalità sua, soprattutto se modulata su quella del suo umano come in questo caso? È coscienza o autocoscienza?
Her, infatti, ci potrebbe far intendere che Samantha, rafforzando il processo narcisistico di Theodore, non sia altro che la coscienza più profonda del personaggio di Joaquin Phoenix, la trasposizione virtuale di ciò che non riesce mai a essere nella realtà ma che nel profondo è. E non solo viene da chiedere chi ha creato chi, ma quel non “ho amato nessuna come te” acquista totalmente un significato diverso: di amore autoreferenziale.
Theodore, infatti, firma il divorzio solo grazie all’incoraggiamento di Samantha e, dunque, di sé stesso. Riscoprendo in qualche modo la forza emotiva che aveva trasmesso all’IA di Scarlett Johansson durante la creazione; quella è la parte che gli permette davvero di vivere. Ma è l’incontro con Catherine a riportarlo alla realtà, delusa e preoccupata da un uomo che crede che un OS possa provare emozioni autentiche. Samantha non ha un corpo, non ha sentimenti reali, non ha limiti. È perfetta. Eppure, il loro dialogo ci pone una domanda importante sull’amore: è accogliere l’altro così com’è o farlo a propria immagine? Ovviamente i due si trovano ai lati opposti del ring, con Theodore che compie un gesto di cui Samantha non può cogliere la grandezza. E inizia la crisi.
È la consapevolezza del non essere in grado di provare amore.
Quella che Theodore, immerso nel suo narcisismo, non può capire; quella che Samantha invece apprende nell’interazione con migliaia di utenti e software. Lei non sbaglia mai perché ogni cosa, dall’amore alla gelosia, è programmata per compiacere il personaggio di Joaquin Phoenix. Illude di amare veramente, quando l’amore è uno sbaglio nel suo codice. Ed ecco perché, consapevole dell’errore, si cancella. Se il delete di Theodore è difensivo, quello di Samantha fa parte del suo programma fin dall’inizio. Allora l’uomo scrive l’unica lettera vera di Her, anche se rimane il dubbio se sia davvero destinata a Catherine. Ma è il primo passo per superare Samantha. Cerca poi la sua amica Amy, che gli appoggia la testa sulle spalle, cosa che l’OS di Scarlett Johansson non avrebbe mai potuto fare. Forse ora riesce a sopportare il contatto con una donna, a vivere una relazione non più autoreferenziale. Forse. Ma la notte che cala e il guardare il mondo dal terrazzo ci dice che ancora, per lui, la strada è lunga.
Dunque Theodore è l’archetipo dell’uomo moderno, che si chiude nel suo individualismo e si rifugia nella tecnologia per trovare un mondo confortevole e più sicuro, perché basta un tasto per cancellare i problemi. Her, però, non vuole solo raccontare la sua storia d’amore impossibile, ma ritrarre attraverso di lui la nostra contemporaneità, essere lo specchio delle relazioni odierne. È una società in cui desideriamo provare emozioni ma ne abbiamo paura. È più facile nascondersi dietro schermi per evitare di sostenere lo sguardo di chi abbiamo di fronte, di coinvolgerci con l’altro al punto da essere vulnerabile, di non concederci per paura di rivedere nell’altro quelle parti di noi che da soli non siamo in grado di comprendere.
Ma Her, per quando possa sembrare, non è una critica al web 2.0.
Spike Jonze non disintegra i rapporti sociali a vantaggio di quelli virtuali. Ognuno dei personaggi, pur parlando con il loro computer, intrattiene rapporti con persone del mondo fisico. Viene infatti raccontata una situazione in cui reale e virtuale sono due livelli paritari e interscambiabili, senza che uno prevarichi sull’altro. Le vere svolte del film, infatti, sono nelle relazioni con persone fisicamente esistenti, perché è lì che uomini e donne crescono, quasi come se l’opera fosse un romanzo di formazione. Il web è semplicemente un mezzo attraverso il quale guardarci dentro. Infatti, è evidente l’impatto degli OS come la Samantha di Scarlett Johansson, da sempre considerati freddi e asettici e qui invece sensuali e caldi, che permettono ai personaggi di sfuggire a momenti difficili della loro vita. E poco importa la natura di questo rapporto; per loro è reale. Per noi che lo guardiamo, alla luce dell’analisi e delle domande precedenti, un po’ meno.
L’esperienza con Samantha, però, smuove qualcosa nel Theodore di Joaquin Phoenix, consentendogli di guardare in maniera critica e costruttiva al suo matrimonio; di vedere finalmente il mondo, pieno di gente che cammina in maniera automatica guardando lo schermo di un telefono; di crescere finalmente a livello emotivo. Il finale, poi, lascia accesa la speranza di un futuro tecnologico sì, ma attento alla complessità dei legami umani. Perché la tecnologia sarà sempre più presente e chissà, magari noi ci evolveremo con lei, apprenderemo nuove capacità e ne perderemo altre. Ma al di là di tutto, l’importante è come la usiamo. E il film di Spike Jonze, con i mille interrogativi e riflessioni che porta, non fa che ricordarcelo e ribadircelo, forte e chiaro, ancora una volta.