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Horizon – An American Saga: il mito della carovana nel Selvaggio West

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In attesa dell’uscita del secondo capitolo di Horizon – An American Saga, siamo curiosi di vedere come continueranno alcune sottotrame introdotte nel primo film. Il più toccante è sicuramente il filone narrativo di Frances (Sierra Miller) ed Elizabeth, madre e figlia la cui famiglia è stata interamente uccisa dagli Apache. C’è poi lo stesso Kevin Costner (Hayes Ellison), nei panni di un cowboy schivo e taciturno, accompagnato da una prostituta e da un bambino dal passato sconosciuto. Il terzo filone vede protagonisti due fratelli, Junior e Caleb Sykes (Jamie Campbell Bower di Stranger Things), che lasciano il Montana in cerca di vendetta. I loro destini si intrecceranno con quello di Hayes, in un’escalation di azione e duelli all’ultimo sangue. Del resto il western è soprattutto questo!

Ma la storia indubbiamente più poetica è la quarta, quasi completamente ambientata di notte, sotto un cielo stellato mozzafiato. Una carovana di coloni partita da Santa Fe e guidata da Matthew (Luke Wilson), sta attraversando territori inospitali, sia per le condizioni ambientali estreme, sia per la minaccia costante di un possibile attacco da parte dei nativi americani.

Il fascino e il mito del Selvaggio West per noi che viviamo in Occidente, è qualcosa che rientra nell’immaginario collettivo da generazioni. Un’eredità tramandata da chi quei territori li ha vissuti, attirati da condizioni di vita migliori rispetto a quelle che si erano create nel XIX secolo negli stati orientali degli USA. Epidemie di colera, città sovrappopolate e scarsità d’igiene furono le cause che spinsero le classi meno abbienti, ma anche molti borghesi, a spingersi vesto ovest. Come avviene anche in Horizon, coloro che si sono messi in viaggio sulle carovane sono personaggi per lo più poveri, componenti di famiglie numerose, che non hanno nulla da perdere nell’attraversare l’America in cerca del proprio sogno.

La frontiera che vogliono raggiungere non è un luogo che segna un confine, come siamo abituati a pensarlo oggi. Al contrario, è un territorio sempre aperto all’esplorazione e alla conquista; un’area in cui entrare e non una linea su cui fermarsi. Tutto questo però a discapito dei nativi presenti da centinaia di anni in quelle zone. La scena dei bisonti scuoiati dai pionieri in Balla coi Lupi ne è un esempio eloquente. Questi animali erano la fonte di sostentamento principale delle tribù indiane, e ucciderli solo per ricavarne la pelliccia, evidenzia la non curanza con cui i coloni si sono impossessati avidamente di tutto.

Tornando a Horizon e immaginando di sedere anche noi all’interno di uno dei carri di legno coperto dal classico telo bianco, capiamo che anche per gli esploratori partiti dall’est la vita non era certo facile. Prima di tutto perché gli stessi carri erano scomodi, privi di ammortizzatori, perciò spesso le persone procedevano a piedi o a cavallo, accanto alla carovana, per miglia e miglia. Un concetto che dobbiamo tenere a mente è che le traversate potevano durare anche oltre sei mesi. Dipendeva ovviamente da quali erano i punti di partenza e di arrivo.

Esistevano poi diversi tipi di carrozze: dai robusti Conestoga prodotti in Pennsylvania, al Prairie Schooner (letteralmente “Goletta delle Praterie”), un derivato più leggero e quindi più veloce. Era proprio in favore della leggerezza che si era sacrificata la comodità. Percorrere lunghe distanze nel minor tempo possibile era la priorità per queste persone, dato che durante il viaggio gli imprevisti erano all’ordine del giorno.

Tra questi, l’attraversamento di un guado, come si vede in Horizon. I coloni, aiutati dagli animali da traino, cercano di liberare uno dei carri intrappolato nel terreno fangoso. Nel film notiamo i membri delle classi sociali più basse rimboccarsi le maniche per risolvere il problema, in netto contrasto con una giovane e viziata coppia di sposi (Juliette e Hugh) dell’alta borghesia, incapace di adattarsi alle condizioni precarie della traversata.

In effetti una singola giornata di questi cercatori di terre era molto impegnativa. Iniziava prestissimo, quando era ancora buio, e proseguiva per circa 18-20 ore. Si preferiva viaggiare in gruppo, anche per evitare gli attacchi dei nativi. L’unica pausa concessa era il momento della cena, quando ci si fermava per rifocillarsi e riposare.

Nell’opera di Costner le ore della sosta rappresentano alla perfezione il mito a cui siamo tanto affezionati. Sono scene piene di atmosfera e di tensione. È notte e la carovana è ferma e illuminata unicamente dalle lanterne e dalle stelle. Durante il giorno l’acqua viene razionata, quindi il capo comitiva ha espressamente chiesto agli altri viaggiatori di fare attenzione alle scorte. In pratica l’acqua poteva essere usata per bere ma non per lavarsi, cosa inaccettabile per la coppia ricca, soprattutto per la ragazza. Quest’ultima approfitta del buio per bagnarsi corpo e viso, spiata da due uomini del gruppo. Nel frattempo intravediamo nella penombra che la mandria di buoi in viaggio insieme a loro si muove e si agita, come a presagire l’avvicinamento di qualcosa o di qualcuno di pericoloso per i protagonisti.

In questo momento del film il regista è stato molto abile nel trasmetterci la presenza degli indiani senza inscenare un agguato vero e proprio. Vediamo infatti la sagoma di due di loro a cavallo stagliarsi contro un cielo azzurro terso, solamente durante il giorno, su di una gigantesca roccia ocra-rossastra, in posizione sopraelevata. Attenti al lento incedere della carovana sottostante ma decisi a non intervenire, almeno per il momento.

Il mito del Selvaggio West si presenta in tutta la sua bellezza proprio in queste sequenze. Per quanto percepiamo nettamente che il pericolo si sta avvicinando e che nel secondo film alcuni dei componenti della carovana potrebbero morire, ne siamo comunque ammaliati. A contribuire alla nascita di questo mito sono stati la letteratura, in prima battuta, seguita dal cinema. Lo scrittore Fenimore Cooper, autore del libro L’ultimo dei Mohicani, è solo uno dei tanti esempi che si potrebbero fare sull’argomento. Ma ancora più influenti furono gli scrittori e le scrittrici delle dime novel, un genere di racconti popolari sul West che vennero esportati dall’America all’Europa. Il cinema ha poi fatto il resto.

Mitizzare però significa allontanarsi dalla realtà storica dei fatti. Una delle differenze tra mito e storia riguarda i nativi. Infatti, quando le carovane attraversavano i territori in cui abitavano, le diverse tribù non erano solite attaccare. Nella maggior parte dei casi richiedevano solamente un pagamento in animali. Una specie di pedaggio ma composto di bestie invece che di denaro. Il massacro tra le due fazioni avvenne solo in seguito alle razzie di bisonti e alla profanazione da parte dei coloni dei santuari e dell’habitat naturale degli indiani. Una rivendicazione da parte di questi ultimi assolutamente sacrosanta.

Così com’è da sfatare la figura del cowboy vista come colui che si insedia e diventa l’eroe del posto contro i “cattivi”. Come in qualsiasi ambito della vita umana, non esiste una linea di demarcazione netta che suddivide le persone in buoni e malvagi. Anche nel Selvaggio West lo sceriffo della situazione poteva essere una persona poco raccomandabile e disonesta.

In Horizon, a un certo punto, compaiono anche alcuni cinesi. Niente di strano, perché furono realmente coloro che si occuparono della costruzione delle prime ferrovie e delle locomotive a vapore, come si può vedere anche nel film C’era una volta il West. L’arrivo di questo nuovo mezzo di trasporto segnò ufficialmente la fine del mito del Far West e soprattutto di quello delle carovane. Grazie alla ferrovia infatti gli spostamenti da est a ovest erano diventati più sicuri e veloci, percorrendo le stesse tratte dei primi pionieri ma in pochi giorni.

È così che il viaggio si conclude. Scendiamo dalla nostra “goletta della prateria” stanchi ma con gli occhi colmi di tutto ciò che abbiamo visto attraversando l’America. I rigogliosi paesaggi del Montana, con le sue cime innevate, il foliage degli alberi e i corsi d’acqua impetuosi. E poi più giù, tra le gole dei canyon, con il sole accecante, la siccità e la Via Lattea nel cielo notturno. Infine la prateria, priva di orizzonte. Un’unica distesa d’erba, punteggiata qua e là da mandrie di bisonti al pascolo. E una locomotiva in lontananza. Il progresso è arrivato e con esso la fine di un’epoca e di una civiltà.

Dobbiamo abbandonare il mito della carovana per sempre e accogliere il futuro, come saranno destinati a fare i personaggi del film, diretti verso il nuovo insediamento: Horizon, la terra promessa.