Sono tantissimi i film indimenticabili nella storia del cinema; quelli che non invecchiano col passare del tempo e che non ci stancheremmo mai di vedere. Hanno una padronanza tecnica tale da spiazzarci, dando vita a personaggi iconici, trame avvincenti e messaggi profondissimi. Così, evocano in noi emozioni pure, si fondono con i nostri ricordi, ci fanno provare esperienze che ci cambiano da dentro. Dimostrando che sì, i film contano. E, se molto è legato al gusto soggettivo, ci sono delle pietre miliari che mettono d’accordo tutti. Allora, ogni mese dedicheremo una recensione approfondita a un cult intramontabile, scolpito nella memoria collettiva e così significativo da essere ancora oggi attuale. E la scelta, stavolta, è caduta sull’indimenticabile Il cavaliere oscuro.
Non c’è mai stato e forse non ci sarà mai un film come Il cavaliere oscuro. Quindici anni fa, Christopher Nolan è andato oltre il concetto tradizionale del cinecomic d’azione, impregnandolo della sua poetica ed entrando prepotentemente nei confini del crime metropolitano, del thriller, del noir e persino del western. Sfruttando un magnifico Christian Bale, che riesce a farci capire che cosa prova il suo personaggio anche dietro trucco e maschera, ci fa entrare nella mente dell’eroe che è disposto a tutto per la sua città.
Nolan prende Batman e lo scompone in tanti piccoli pezzi ne Il cavaliere oscuro. Giocando con lui un logorante braccio di ferro, mettendolo a nudo per riscoprirne l’essenza.
Lo si vede già dal titolo, dove non compare il nome del protagonista, proprio per ribaltarne il punto di vista. Se in Batman Begins Bruce fronteggiava e dominava le sue paure, nel sequel viene messo di fronte al senso di colpa; emblema di ciò è quando si trova ad affrontare delle copie di sé in seguito all’attacco dello Spaventapasseri. Perché la sua figura ha ispirato il male, non solo il bene; ha portato assieme speranza, giustizia e un’ondata di criminalità. In fondo, Joker non sarebbe mai nato senza Batman. Inoltre, i cittadini non riescono a identificarsi con lui, a differenza di altri eroi alla Spider-Man, ed è per questo che deve eleggere qualcun altro a paladino della gente. Proprio in Harvey Dent Bruce vede una possibilità di riscatto e di salvezza. La redenzione che brama con tutte le sue forze.
Ecco che Il cavaliere oscuro rappresenta brillantemente molteplici facce del suo protagonista: dal rampollo superficiale e donnaiolo all’innamorato non ricambiato; dall’ereditiere che si addormenta alle riunioni al figlioccio di Alfred, passando per quel Batman di cui emerge, a differenza delle versioni precedenti, il lato investigativo, scientifico, umano. Soprattutto, è il conflitto interiore tra Batman e Bruce Wayne che viene evidenziato; di un uomo combattuto tra la straordinaria maschera da eroe e il desiderio di una vita ordinaria con Rachel. Il tutto racchiuso nello scambio con Alfred: “Batman non ha limiti. […] Ma lei si, signore”. Perché l’uomo è fatto di carne, traumi e dubbi che l’eroe non può avere.
Ed è proprio sull’uomo che lavora l’altro lato della sua medaglia, ovvero quel Joker che non agisce in maniera razionale. Almeno in apparenza.
Joker è un agente del caos che entra in un sistema o in una società per distruggerli, che sovverte le regole per puro piacere, che mette a ferro e fuoco una città con esperimenti perversi per farne emergere le ipocrisie. Servendosi di un’arma potente come il senso di colpa, in particolare per colpire quel Batman che incatena le sue emozioni e la sua irrazionalità in una doppia gabbia, in una maschera a due strati. E in questa partita a scacchi degna di Sherlock Holmes e James Moriarty, Joker si trova sempre un passo avanti a Bruce Wayne. Il villain de Il cavaliere oscuro non è, infatti, uno psicopatico nel senso stretto del termine, né un semplice criminale. Non si nasconde, non vuole soldi o potere; anzi, deride la criminalità di Gotham, così legata a regole e riti.
Soprattutto, ogni sua mossa è perfettamente calcolata e la sublime sceneggiatura lo sottolinea passo dopo passo. Basti pesare alla domanda scomoda che pone alle sue vittime, ovvero “Vuoi sapere come mi sono fatto queste cicatrici?”, per studiarle e, contemporaneamente, spaventarle. E la risposta varia in base a chi ha davanti. Del resto, per lui è importante che l’audience conosca l’origine della sua follia; in questo modo possono comprendere il suo comportamento ed esserne terrorizzati allo stesso momento. Perché dietro la sua risata, quell’essere un sociopatico lucidamente brillante e quella sua follia, si celano autentiche verità su di noi e sulla nostra realtà. Ed è questo che ci fa tremendamente paura, che Joker stesso ama. Infatti, se non ha un pubblico, come dimostra la prolungata inquadratura del suo volto quando fugge dalla polizia, non ride, né agisce in maniera folle. Non ne ha motivi.
A renderlo uno degli antagonisti più inquietanti e complessi della storia del cinema c’è l’interpretazione di un grandissimo Heath Ledger. Michael Caine, prima dell’uscita de Il cavaliere oscuro, spese queste parole per l’attore:
“Jack (Nicholson) era come una figura clownesca, benigna e maligna, forse un vecchio zio assassino. Potrebbe essere (perfino) divertente e farti ridere. Heath (Ledger) è andato in una direzione completamente diversa da Jack: è come uno spaventoso psicopatico. È un ragazzo adorabile Heath e il suo Joker sarà la rivelazione del film”.
E il buon vecchio Michael ci vide bene. Ledger conquistò un meritato Oscar da non protagonista per la sua incredibile performance. Si immerse così tanto nel personaggio da isolarsi in un motel per leggere libri su psicopatici e guardare gli horror, scrivendo i suoi pensieri nel cosiddetto “Diario di Joker”. Lo plasmò nei suoi tic (quello alla bocca è ripreso da Charles Manson), nella voce, nel modo di camminare, nei sorrisi, nelle movenze. Sul set non si toglieva mai il trucco e il costume; incitava Bale a colpirlo davvero durante la memorabile scena dell’interrogatorio, girava i video con gli ostaggi lui stesso. Fece crescere ed evolvere Joker dentro di sé, regalandocene uno mai visto fino a quel momento e che rimane fedele sia ai fumetti che a quel Male assoluto che rappresenta, sempre presente e senza un’origine chiara.
Come tale, da grande manipolatore qual è, trasforma il simbolo di Gotham, attraverso la sua imprevedibilità e capacità di capire chi ha di fronte, instradandolo sulla via della follia, su quella di Due Facce. Impersonato da un grandissimo Aaron Eckhart, Harvey Dent era il rappresentante della legge, della disciplina e delle regole; l’uomo da battere e un predestinato in grado di “arrestare centinaia di delinquenti alla luce del sole e senza indossare alcuna maschera”. Peccato che sarà proprio questo suo esporsi a sancirne la caduta, mostrando a Joker i suoi punti deboli e avviandone il cambiamento da Cavaliere Bianco a vendicatore guidato dal caso. Un cambiamento che rappresenta la rabbia di chi viene tradito dal Sistema che proteggeva e in cui credeva, e che si intuiva ne Il cavaliere oscuro nelle scene in cui Dent perde il controllo: solo una metà del viso è visibile, mentre l’altra è nell’ombra. E Joker lo spinge nel caos dandogli una pistola e lasciando all’uomo la scelta di sparargli o meno; una scelta calcolata al dettaglio, dato che il villain blocca la pistola con la mano destra, cosicché, anche premendo il grilletto, il colpo non parta.
Dent è la vittima della guerra tra bene e male impersonati da Batman e Joker ne Il cavaliere oscuro.
D’altronde, la filmografia di Nolan si è sempre nutrita di contrapposizioni forti, di personalità agli opposti e di uomini interiormente divisi. Joker e Batman sono agli antipodi, eppure incredibilmente simili in quella libertà dietro una maschera, nella loro solitudine, nell’essere mostri da accantonare da un momento all’altro. Joker glielo dice, in quel confronto così intenso da richiamare immediatamente l’incontro di Al Pacino e Robert De Niro in Heat – La sfida.
È un punto chiave, perché Il cavaliere oscuro, come abbiamo già analizzato, si concentra sul concetto di identità, domandandosi: cosa ci rende quello che siamo? Nolan si era già fatto questa domanda con Leonard Shelby in Memento, nella sfida tra Borden e Angier in The Prestige, persino con la fissazione di Cobb in Following. La sua risposta è che sono le scelte che determinano la nostra identità. Il nascondersi dietro una maschera che poi sacrificherà definisce Bruce Wayne. Solo incanalando la fiducia della città nel simbolo di Harvey Dent e mentendo sull’accaduto, essa si sarebbe potuta salvare. Ecco che la scelta si presenta ne Il cavaliere oscuro come dilemma morale – salvare una persona e lasciarne morire un’altra – e, soprattutto, è il tempo a esserla. E, in quest’ultimo caso, non è compiuta dall’eroe, perché Joker ha già preso quella decisione. Come? Dando a Batman informazioni sbagliate, conscio che sarebbe andato da Rachel, cadendo così in trappola. Come succede a scacchi, Joker sacrifica la regina per arrivare al Re. O meglio, fa in modo di farlo accadere, perché lui non agisce quasi mai direttamente, essendo un grande burattinaio che si limita a dare semplicemente una piccola spinta. A ergersi a simbolo di verità e menzogne. A vincere.
Già perché, sebbene alla fine perda uno dei duelli d’intelligenza migliori nella storia del cinema, è lui a trionfare. Ha distrutto l’umanità di Dent portandolo indirettamente alla morte, ha reso Batman il principale indiziato per l’uccisione del primo, costringendolo alla fuga. Allo stesso tempo, però, assumersi quella responsabilità fa capire a Bruce il vero significato della sua icona ed essere il capro espiatorio gli permette di espiare il senso di colpa. Diventando davvero quel Cavaliere Oscuro che dà il nome al film.
Ed ecco che Bruce, Joker, Harvey e tutti gli altri non sono solo dei personaggi, ma interi e sconfinati universi. Hanno una complessità interiore tale che riescono a farci immedesimare in loro e a provare una fortissima empatia difficilmente riscontrabile in altri cinecomic. E questo anche perché Nolan li immerge in un contesto coerente e iperrealistico – aiutato dalle splendide musiche di Hans Zimmer e James Newton–Howard – e, così, ci fa capire che cosa succederebbe alla nostra città se fossero “protette” da un vigilante che scavalca la legge. E allora, non siamo di fronte solo a una storia di supereroi. Con una violenza e cupezza mai vista, ci sbatte in faccia messaggi importantissimi sulla verità, sul caos, sulla colpevolezza, sul sacrificio e sull’accettazione. Soprattutto, è l’umanità stessa che viene scandagliata nel lerciume di Gotham. Noi compresi. Segnando un punto fisso nella cinematografia mondiale e influenzandola definitivamente con un’opera d’arte nel vero senso della parola.