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Il Segreto di Liberato – La Recensione: la nostra parte migliore è sempre di qualcun altro

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Addurava de rose a ciento passe
Era de maggio, io no, nun mme ne scordo
.”

Era de maggio – Roberto Murolo

Alla Chiesa di Santa Maria di Materdei c’è un bambino curioso, così pieno di domande da vestirsi di incognito. Quel bambino siede alla prima fila di una serie di panchine vuote, scruta sguardi e sorrisi intraprendenti che presto diventeranno i suoi. Ascolta e decodifica gli accenti del giovane musicista cresciuto al Vomero che sembra volersi allontanare dal suo dialetto, ma non troppo. Nun sia maje. Quegli accenti che diventeranno poi i suoi, a metà tra l’influenza e la radice. Nella Chiesa di Santa Maria di Materdei c’è un bambino vestito da Pulcinella, che sta per scoprire uno dei più grandi segreti di un ragazzo: cosa si vuol diventare nella vita. Di fronte a lui c’è un vecchio signore che fende il vento con una bacchetta, disegnando una rivelazione musicale che per quel bambino ingenuo e sognatore ha dell’esoterico. Nella Chiesa vuota di Santa Maria di Materdei rintoccano le note di Era de maggio di Roberto Murolo, e di fronte a quel bambino dirige l’orchestra Liberato. Colui che quel bambino diventerà.

Provate a immaginare un film qualsiasi dello Studio Ghibli, con una dose massiccia dell’estetica metafisica di Your Name., e ambientateli a Napoli. Anzi, partite dai personaggi, perché come spiega Lucia nel film “per costruire una storia, io parto sempre dai personaggi”.

Lo ha fatto Francesco Lettieri con Il Segreto di Liberato, e lo ha fatto Liberato con Liberato.

Partire dai personaggi, però, in alcuni casi può rappresentare l’idea dell’artificio, della fantomatica (e tanto insinuata proprio nel caso del “fenomeno Liberato”) costruzione a tavolino. Il più grande pregio di questo film, e probabilmente lo scopo più intimo, è stato proprio quello di invertire la rotta del successo e utilizzare una tappa artistica – quella del film documentario – come una genesi che distrugge gli schemi narratologici. Non come una classica, spoglia operazione di marketing.

La lente attraverso la quale Francesco Lettieri decide di farci decifrare Il Segreto di Liberato è proprio quella dell’attaccamento alla causa. Il “UEUE, ME VUO’ RISPONNERE?!”, l’urlo di un ragazzo che non era mai riuscito a farsi sentire, è evoluto in tutto ciò che può diventare quel leggero imbarazzo di chi ha indebitamente dubitato. Anche da qui parte il mito di Liberato: non dall’atto di fiducia stentato di Francesco Lettieri, ma dal senso di dovere e dedizione alla causa di chi sa di aver incrociato il destino di qualcuno che ha davvero qualcosa da dire.

È per questo che Il Segreto di Liberato parla del mito mescolando il sogno e la realtà, dimensioni coesistenti e necessarie. Lo fa raccontando di un giovane sognatore emarginato, tipico della più bella fiaba di Miyazaki, ma contemporaneamente anche dei “Cazzimma Bros” di Lettieri che quel ragazzo l’hanno proiettato nel “mondo vero”. Assistiamo così alla genesi del mito musicale e culturale attraverso quell'”atto di fede” che è diventata una missione. Da un lato, grazie al taglio documentaristico inciso dalle interviste e le riprese inedite nei backstage di viaggi e serate della troupe (che includono, naturalmente, Liberato sempre rigorosamente mascherato). Dall’altro lato, grazie al linguaggio dell’animazione che disegna un riassunto romanzato della vita del ragazzo dietro il mito. Aspetto, quest’ultimo, curato delicatamente da Giuseppe Squillaci e Lorenzo Ceccotti (in arte Lrnz).

C’è inevitabilmente musica, ne Il Segreto di Liberato.

Non potrebbe essere altrimenti. C’è musica nel sonoro, quando ripercorriamo la fase più celebrativo/documentaristica del film con i concerti a Londra, “la città a cui tu dai tutto, e lei non ti restituisce mai niente”, Berlino, Parigi, ma soprattutto il sorprendente riscontro rivelatore del concerto sul lungomare e le tre date a piazza del Plebiscito. Già, perché se c’è una cosa che il ragazzo dietro il mito ci ha tenuto a dire in questo documentario, fuori dagli schemi e dalle logiche discografiche, è che in un modo o nell’altro si torna sempre nostalgici alle proprie origini. La musica è anche impressa però nelle immagini, e la sentiamo nei frame muti di un poster di Pino Daniele che veglia sulle statuette dei Daft Punk in una cameretta inevitabilmente adibita a piccolo studio di registrazione.

Immagini, simboli e linguaggi completamente diversi l’uno dall’altro danno forma a Il Segreto di Liberato.

Antitesi che spiegano – attraverso il viaggio del giovane Liberato che incontra Francesco Lettieri – quella gentrificazione che ha aiutato Napoli a diventare qualcosa di diverso negli ultimi 20 anni. E in questo è stato certamente utile anche il mito di Liberato, che è servito a Napoli tanto quanto Napoli è servita a lui (a loro, a tutti i ragazzi del team che hanno creduto nella trasformazione dell’idea di quello che il cantante in concerto a Londra definisce “il fuck*ing center of the world”).

La Napoli che si trasforma assieme al Liberato disilluso, di ritorno a Napoli dopo un’epopea greca che sembra scandita dal suono della sirena Partenope, sembra proprio quella “voce che vuole allontanarsi dal suo accento”. Sembra proprio Liberato che, dopo aver prodotto per anni ciò di cui si è innamorato tramite influenze, si accorge che abbracciare le proprie radici non significa solo omaggiare una città, ma anche e soprattutto chi ci vive. Così gli anglicismi del Liberato in cerca di fortuna si trasformano in un disinvolto e orgoglioso “vafammocc” in napoletano. Ma non troppo. Nun sia maj.

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Una scena del film Il Segreto di Liberato

L’errore più grande che si possa fare approcciando a Il Segreto di Liberato è aspettarsi una superficiale promessa dal titolo: l’identità del cantante e producer dietro il progetto.

Il film di Lettieri non svela alcun segreto, non vuole e non deve farlo. Semmai di quel segreto parla, e ne sottolinea l’indispensabilità. Una necessità che appartiene al pubblico, anche se non lo sa, ancor più che all’artista. Necessaria è la ricorrenza, quella sorta di cabala che celebra la sacralità dei simboli, in piena natura partenopea. In quei simboli, però, Il Segreto di Liberato oltre a parlare di Napoli cerca anche di tracciare una linea di demarcazione per spiegare cosa è vero e cosa è romanzato nella storia del Liberato ragazzo.

Ed è per questo che Liberato preferisce raccontare la sua identità attraverso la parte migliore di sé, quella che appartiene agli altri. Quella che è nata dalle interazioni, ora che le sue interazioni sono quelle del popolo. Il segreto di Liberato (in lettera volutamente minuscola) è proprio questo messaggio: “il mio segreto non è mio”. Il segreto di Liberato è l’orgoglio che percepiamo quando qualcun altro sembra descrivere chi siamo ancor meglio di quanto riusciremmo a fare noi. Per questo è importante che il mondo continui a chiedersi chi sia Liberato, perché è chiedendoselo che lo descrive meglio. Ancor meglio di quanto farebbe il suo nome.

Ancor meglio di quanto facciano i ricordi che tappezzano la cameretta adibita a studio di registrazione, come a impreziosire il rituale musicale che ti ha riempito la vita.
Ancor meglio di quanto faccia quel disegno della rosa, che traccia i tratti del personaggio inventato da Lucia.
Ancor meglio di quanto faccia la bacchetta di chi quel bambino ormai è diventato.