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La Terra Promessa – La Recensione: né carne né pesce

La terra promessa
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Il cinema europeo ultimamente sta cacciando fuori dei bei pezzi da novanta. Negli ultimi anni sono state diverse le produzioni che, provenienti dal nostro continente, sono state apprezzate almeno tanto quanto quelle di Hollywood, dipingendo un quadro in cui forse, così come era un tempo, gli Stati Uniti non sono soli nel loro dominio dell’industria dell’intrattenimento. È una tendenza forte, e lo ha dimostrato recentemente anche la notte degli Oscar, sia con la cinquina candidata come Miglior film internazionale, sia con i numerosi premi portati a casa da Povere creature! (che trovate qui su Disney+), film di produzione condivisa tra Stati Uniti, Regno Unito e Irlanda del regista greco Yorgos Lanthimos. È con questa fiducia nel cuore che ho cominciato la mia visione di La terra promessa, produzione danese presentata al Festival di Cannes 2023 e sbarcata il 14 marzo nei cinema italiani.

Ma forse avevo cantato troppo presto vittoria. Con il titolo originale Bastarden, La terra promessa è l’adattamento cinematografico del romanzo Kaptajnen e Ann Barbara della scrittrice danese Ida Jessen. Il film è diretto da Nikolaj Arcel, che con il suo Royal Affair ha vinto nel 2012 l’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura alla Berlinale. La nomination come miglior film straniero nel 2013 sia ai Golden Globes che agli Oscar ha di fatto permesso ad Arcel di entrare a far parte di quella tendenza di successo del cinema europeo della quale abbiamo appena parlato. Una tendenza della quale però, a mio parere, con La terra promessa non si è dimostrato all’altezza. E ora, andando con ordine, proviamo a capire il perché, con una recensione a basso tasso di spoiler (ma io intanto vi avviso, ci saranno).

La terra promessa: la trama

Siamo nella Danimarca del 1755. Ludvig Kahlen, interpretato da Mads Mikkelsen (avete sentito delle accuse per poca diversità?), è un capitano con una carriera militare ormai alle spalle. Tornato dalla Germania, chiede l’autorizzazione di provare a guadagnarsi da vivere coltivando una zona di brughiera arida che, in quanto vuota e incolta, è secondo la legge di proprietà del re. Il suo obiettivo è rendere coltivabile la terra e quella zona una colonia, finanziando di tasca sua tutto il lavoro. In cambio, nel caso di buona riuscita, chiede che gli sia dato un titolo nobiliare. La richiesta viene accordata non tanto perché qualcuno creda davvero nella sua idea, ma solo per fare in modo che il re pensi che agli altri nobili e proprietari terrieri vari ed eventuali importi qualcosa del suo programma per incentivare le coltivazioni.

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Mads Mikkelsen in una scena di La terra promessa

Arrivato nello Jutland, il capitano Kahlen – a quanto pare ispirato a un personaggio realmente esistito – si scontra subito con i nomadi che vivono nella zona, gruppi che vogliono rubargli ciò che ha e che non si farebbero problemi a ucciderlo per ottenerlo. Ma in realtà, come spesso accade, il vero nemico non sono i poveri locali ma i signorotti eleganti che vivono in enormi palazzi, con un’ampia servitù sotto il loro pieno controllo. Nel caso specifico, il nemico è Frederik de Schinkel, un ricco proprietario che in più di un’occasione mi ha ricordato il per niente amato Ramsey Bolton di Game of Thrones per il mix di avidità, sadismo e pazzia che contraddistingue entrambi.

Tra Ludvig e de Schinkel comincia una vera e propria battaglia su due fronti.

Il primo è, ovviamente, quello terriero, perché de Schinkel non accetta di dividere una terra che pretende tutta per sé. Non che legalmente ne abbia diritto, ma quando sei anche un giudice questo è un fattore di poco conto. Il secondo fronte è invece più emotivo: la promessa sposa del ricco proprietario sceglie proprio il capitano come scappatoia per non compiere il suo destino. Un destino abbastanza tragico, oserei dire, e credo che lei sarebbe molto d’accordo con me.

Tra un colpo e l’altro, intanto, il capitano Kahlen persegue il suo proposito con un’ostinazione quasi inquietante. Non si ferma mai, a prescindere dall’ostilità delle condizioni economiche, sociali e meteorologiche, e sembra disposto a sacrificare qualunque cosa per rendere il suo obiettivo una realtà. E intanto la sua iniziale solitudine viene sostituita da una compagnia prima ostile, poi sempre più familiare. Al suo fianco ci sono Ann Barbara, ex serva di de Schinkel fuggita insieme a suo marito, e Anmai Mus, una bambina nomade. Persone con le quali, pian piano, alcune delle barriere del capitano cominciano a crollare.

Tre donne fondamentali

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Ludvig e Ann Barbara in una scena di La terra promessa

A proposito di persone. Ludvig Kahlen è fin dal primissimo momento di La terra promessa il protagonista del racconto, colui attorno al quale la storia si snoda. Mads Mikkelsen, che abbiamo imparato a conoscere e apprezzare con la serie Netflix Dark – a proposito di Netflix, qui vi parliamo di serie che si prospettano davvero forti sulla piattaforma – dà vita a un personaggio a prima vista arido tanto quanto la terra che si ostina a coltivare, poco incline ai sentimenti e alle relazioni con il prossimo. Sembra impassibile a qualunque cosa gli succeda, sempre pronto ad agire senza remore. E anche se nel corso del film la sua personalità viene in parte smussata, questo suo lato non cambia mai del tutto. Ha un obiettivo e vuole raggiungerlo, a qualunque costo. Anche se ciò significa rinunciare a qualcosa – o qualcuno – a cui tiene.

Atto dopo atto, il capitano incontra tre donne che ne sostengono il percorso e che si rivelano tutte a proprio modo indispensabili. C’è Ann Barbara, prima domestica ostile e poi sempre più vicina a lui, una persona con cui instaura un rapporto che vede ragione e sentimento fondersi in una maniera abbastanza particolare. È amore? Forse no, ma ci si avvicina. C’è poi Edel Helene, che vede in Ludvig un modo per essere libera e proprio per questo ci si affeziona. Anche in questo caso, tra amore ed escamotage il confine è sottile. E c’è Anmai Mus, tanto piccola quanto testarda e caparbia, che permette al protagonista di scoprire un lato più amorevole e paterno di sé che probabilmente nemmeno pensava di avere.

Ma qui sorge un punto: è Ludvig il vero protagonista?

La risposta più scontata sarebbe sì. Ludvig ha l’idea della colonia e si muove per realizzarla, Ludvig si scontra con il cattivo e per questo incarna nella storia il ruolo dell’eroe. Eppure, per quanto ben interpretato, sembra mancare di qualcosa. Manca della caratterizzazione che ci permette di conoscerlo davvero e dell’iniziativa in grado di fare di lui una parte realmente reattiva. Ann Barbara, Edel Helene e Anmai Mus non sono soltanto persone che sostengono l’eroe e che lo aiutano a diventare una persona migliore: lo completano, e sono loro a essere davvero eroiche. Senza le prime due, tra il capitano e il nemico non ci sarebbe stata storia: il male avrebbe trionfato.

In questo contesto il protagonista si fa meno protagonista e, per quanto mi piaccia il fatto che la trama dia uno spazio non secondario alle donne della storia, viene a mancare uno sforzo di caratterizzazione di cui ci sarebbe davvero bisogno. Conosciamo i personaggi, ma come? Sappiamo davvero cosa li spinge ad agire e reagire nel profondo? La sensazione è che la risposta in questo caso sia no, e che qualcosa sotto sotto manchi.

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Una scena di La terra promessa

La terra promessa: una storia, più livelli

Una trama come questa, che unisce il dramma storico ai western (se siete appassionati del genere, questi film su Prime Video possono fare al caso vostro) senza dimenticare anche un po’ di sentimento, racchiude in sé diverse tematiche e possibilità di interpretazione. Predominante è la questione del classismo: a una posizione elevata non sempre corrisponde la capacità di ricoprirla. A testimonianza di questo ci sono eroe e antieroe. Da un lato abbiamo Ludvig, figlio illegittimo di un aristocratico, che ha dovuto lottare per ottenere la sua posizione nell’esercito e continua a farlo per ricevere un titolo nobiliare che gli spetterebbe di diritto. Dall’altro lato abbiamo de Schinkel, un latifondista temuto ma mai apprezzato, lì solo grazie a quel cognome che si ostina a voler cambiare. Un’ingiustizia palese ma costante, che nel corso del film si evolve ma resta sempre lì, a ricordarci che oggi non troppo è cambiato.

Tra il protagonista e l’antagonista ci sono poi i nomadi, personaggi non apprezzati né da una parte né dall’altra. Sono visti con paura e diffidenza, temuti per il loro essere portatori di una sorta di maledizione che colpisce anche chi gli sta intorno. I “civilizzati” non vogliono averci a che fare, non vogliono toccarli, condividere con loro gli spazi e il lavoro. Anche in questo caso il parallelismo tra il Settecento e oggi viene naturale, ma anche in questo caso c’è qualcosa che manca. E poi si parla anche del rapporto tra ordine e caos, della complessità delle relazioni umane, della non unicità del concetto di famiglia. Ma forse il punto è proprio che a volte, nel tentativo di trattare tante tematiche, non si riesce a dare a nessuna lo spazio di cui avrebbe bisogno.

Togliamoci dalla testa l’idea che la cinematografia si divida in film belli e film brutti.

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Mads Mikkelsen in una scena di La terra promessa

Ce ne sono alcuni che, semplicemente, sono. Cosa? Di preciso non lo so. Hanno una storia con un potenziale non sviluppato pienamente, hanno personaggi interessanti ma non caratterizzati nella loro completezza. Sono film né sì né no, né carne né pesce, che non possono essere definiti brutti perché davvero non lo sono, ma che sarebbe comunque esagerato definire belli, figuriamoci dei capolavori. Film che non mi fanno uscire soddisfatta dal cinema ma che sono comunque piacevoli da guardare in compagnia, magari sul divano in un giorno infrasettimanale. Ecco, La terra promessa è uno di quelli. E se è vero che la fotografia è fatta davvero bene, è vero anche che la scrittura forse non è abbastanza forte.

E quindi morale della favola: La terra promessa è consigliato o non consigliato? Io non me la sento di dire che non lo riguarderei, ma tantomeno posso dire che mi abbia colpito. La perenne sensazione di mancanza, di non detto o non scritto, pesa. Eppure chissà, magari il segreto sta proprio nel vederlo di nuovo.