Quando si entra nell’età adulta e in quella quotidianità fatta di ripetute lavoro-impegni-sonno (poco), un weekend di relax per staccarsi da tutto e da tutti nel bel mezzo del nulla sembra quanto di più impossibile e desiderabile possa esistere. Pensare di trascorrere un paio di giorni godendosi la propria famiglia e una sorta di semi-irraggiungibile pace interiore è un’idea che diventa tanto frequente quanto rara da attuare, e nel 99% dei casi resta lì, in una scatola chiusa nella mente, tra quel viaggio oltreoceano che non hai mai prenotato e la giornata a Disneyland che tanto desideravi da bambino. L’altro 1% delle volte, quello in cui dall’idea si passa alla realizzazione, costituisce l’incipit di Leave the World Behind, thriller psicologico diretto da Sam Esmail e distribuito venerdì 8 dicembre su Netflix. La sua storia comincia proprio così, con una Julia Roberts convinta di volersi lasciare alle spalle il mondo per un po’ e un sorpreso Ethan Hawke che non vede l’ora di assecondare questo strano impulso di sua moglie. Avendo già descritto il genere come thriller – anche se non avevo ancora detto apocalittico, ma lo faccio ora – potete già capire come il risultato di questo tranquillo weekend familiare non sia proprio quello sperato.
Leave the World Behind: la trama
Non tutti i viaggi sono come ce li aspettiamo e anzi, tendenzialmente i migliori sono quelli che ci riservano qualche sorpresa, ma quello dei protagonisti di questa pellicola prende dei risvolti più inaspettati dell’inaspettato. Amanda e Clay – per l’appunto Julia Roberts ed Ethan Hawke – sono una coppia newyorkese medio-borghese che vive a Brooklyn insieme ai due figli, il sedicenne nel pieno della sua tempesta ormonale Archie e la tredicenne Rose, che se potesse passerebbe tutto il suo tempo davanti al tablet a guardare Friends (bello tra l’altro il fatto che alla serie abbia partecipato a suo tempo anche la stessa Julia Roberts). Amanda lavora nel campo della pubblicità e passa la maggior parte del suo tempo a cercare di analizzare e comprendere le attitudini umane, al fine di vendere alle persone cose delle quali probabilmente non hanno bisogno e che nemmeno vogliono davvero, ma che devono per lo meno credere di volere. E proprio passare così tanto tempo nel tentativo (abbastanza riuscito) di capire le persone l’ha resa diffidente nei confronti del prossimo, ben consapevole di quanto, sotto sotto, ognuno nella vita pensi ai fatti suoi. Clay, invece, ha un’attitudine totalmente diversa: professore universitario di comunicazione e media, è molto più fiducioso e aperto al prossimo rispetto a sua moglie, in un atteggiamento non totalmente privo di barriere, ma quasi. Niente di più distante, direte voi, ma magari a volte è proprio dall’unione degli opposti che nascono i migliori equilibri.
Come anticipato, una mattina Amanda si sveglia presto e, presa dal classico “Ho bisogno di una ragione per non cambiare idea sulla scelta di andare in vacanza”, prenota d’impulso una villa per passare il weekend fuori città, al mare, a netta distanza dalle preoccupazioni della quotidianità. La famiglia parte, e dopo poco cominciano a partire in sequenza anche le prime stranezze. Nell’ordine: mentre sono in spiaggia una petroliera si arena pericolosamente sul bagnasciuga, e poi telefoni, tv, tablet e wifi cominciano a dare forfait. Dulcis in fundo, nel bel mezzo della notte un uomo e una ragazza elegantemente vestiti, G. H. e Ruth, si presentano alla porta della casa affittata, affermando di esserne i proprietari e di essere tornati a causa di uno strano blackout. La reazione degli affittuari è, ovviamente, opposta, con Amanda che non crede nemmeno a una parola di quello che i due le dicono e Clay che è invece disposto a fargli passare la notte insieme a loro. Ma la sveglia della mattina successiva, lungi dal portare una rinnovata tranquillità, si manifesta per quello che è: l’inizio della fine. E se il problema non sono i proprietari di casa, che comunque non sembrano propriamente le persone più trasparenti della Terra, qualcosa che non va c’è, ed è qualcosa di molto complesso, al quale non è neanche detto che ci sia una soluzione.
Tra giudizi positivi e lentezza del racconto
Attualmente in prima posizione tra i film più visti sulla piattaforma streaming Netflix, Leave the World Behind ha ricevuto dal momento della sua uscita, avvenuta negli USA con un giorno di anticipo rispetto al nostro Paese, giudizi tendenzialmente positivi ai quali non posso che accodarmi. Se infatti è vero che i 141 minuti di film si sarebbero tranquillamente potuti condensare in poco più di 100, è altrettanto vero che non ho percepito questa lunghezza come pesante. L’atmosfera si crea lentamente, scena dopo scena, anche se – forse proprio grazie a questa lentezza e a una colonna sonora coerente e ben piazzata – capiamo fin da subito che qualcosa, prima o poi, accadrà. Dalla scena numero uno sappiamo che le cose non si metteranno bene, lo sentiamo fin nelle ossa, ma non riusciamo a capire cosa né come accadrà fino a ben più in là durante il film. E questo, miei cari lettori, per quanto mi riguarda è un grande plus, soprattutto se parliamo di un thriller psicologico.
Clay impazzirà nel bel mezzo della notte tentando di uccidere la sua famiglia? Le persone che si presentano di punto in bianco in casa non sono chi dicono di essere? Qualcuno o qualcosa comincerà a sconvolgere la situazione? Per lungo tempo nel corso della visione di Leave the World Behind queste domande non trovano risposta, e restano lì portandoci ad avere sempre un po’ il fiato sospeso. Non ci sono jump scares, non ci sono picchi di adrenalina durante i quali impazziamo dalla voglia di capire come andrà a finire: c’è un lieve ma costante senso di ansia che, come una goccia che continua a cadere sempre nello stesso punto, comincia lentamente a farci entrare in un mood che non ci permette di staccarci dal film. Ed ecco, se non è un punto a favore di una pellicola questo, non so quale possa essere. Né la storia nei suoi primi tempi né tantomeno il trailer del film (altra rarità questa, considerando il fatto che tendono a diventare dei veri e propri film a sé stanti) ci danno fin da subito un’idea chiara di quale sia l’evento scatenante dei problemi, e quindi nel pieno rispetto di voi lettori non sarò io a farlo. Eh già, questa recensione non parlerà di quello che succede nel film. Vi basta sapere che qualcosa c’è, ed è qualcosa che forse non è realistico ma è di certo realista.
Ma nel mio bisogno innato di trovare sempre il pelo nell’uovo, qualcosa di negativo dovrò pur dirlo.
E quindi eccoci qui, lo dico: il finale non mi è piaciuto poi molto. In una pellicola che, come detto, si prende ben 141 minuti di attenzione del pubblico, sembra quasi che un vero e proprio finale non ci sia. Le storie dei protagonisti vengono lasciate a metà, come se non fossero poi così importanti. Ma riflettendoci bene forse è proprio così, non lo sono. Il punto è che Leave the World Behind, prima di essere la storia di Amanda, Clay, G. H. e Ruth, è la storia di come le persone affrontano il pericolo, l’ansia, la possibilità che qualcosa di grave, misterioso e irrefrenabile stia effettivamente accadendo a se stessi e alla propria famiglia. E, prima ancora, è la storia di come gli esseri umani affrontano la propria natura e le relazioni con gli altri esseri umani. La risposta? Tendenzialmente male.
È paradossale come, in un mondo nel quale siamo sempre e perennemente connessi, la distanza tra noi sia più ampia che mai. Facciamo fatica a fidarci del prossimo, siamo infastiditi da ciò che le persone attorno a noi fanno, e fin troppo spesso siamo così pieni di noi da dimenticare di ascoltare chi ci circonda, anche le persone alle quali vogliamo davvero bene. E se è così allora forse la vera minaccia non viene dall’esterno, non sono le persone o i gruppi armati o gli alieni che vogliono farci del male: siamo noi, incapaci di fidarci l’uno dell’altro. Forse è vero, come anche alcuni tra i più grandi filosofi ed economisti hanno affermato, che in quanto individui razionali siamo naturalmente portati a perseguire sempre il nostro solo, unico ed egoistico benessere. Non ci resta allora, per cominciare ad avvicinarci davvero, che capire che noi siamo tutto ciò che abbiamo. Chissà che però ormai non sia già troppo tardi.