A tutti piacciono i cartoni. Quanti di noi, almeno una volta, non hanno sognato di essere principesse, cavalieri, animali parlanti o creature delle favole? Diciamoci la verità: ogni scusa è buona per chiudersi in casa, tirare le tende e iniziare una maratona infinita dei nostri film della Disney preferiti. Sono belli, confortanti, familiari, veri. E proprio in nome di questa verità, per ricercare ancora una volta quel realismo che tanto piace al cinema attuale, negli ultimi anni abbiamo assistito a diversi remake delle favole a cui siamo più affezionati. Il problema? Spesso e volentieri, non funzionano. E allora viene spontaneo chiedersi: Disney+ ha fallito con i live action?
Nel 1988 usciva quel capolavoro che è Chi ha incastrato Roger Rabbit. Film per metà animato e per metà azione dal vero, ha riscosso un successo incredibile e per primo ci ha insegnato come i cartoni e la cinematografia più tradizionale possano intrecciarsi e dare vita ad un prodotto originale e di buonissima fattura. Successivamente, già negli anni novanta la Disney ha iniziato a realizzare qualche adattamento in live action dei suoi cavalli di battaglia (come Il Libro della Giungla o il molto più riuscito La carica dei 101). E dato che al cinema, ogni tanto, sembra viga la regola del “prendiamo un’idea innovativa e utilizziamola fino a farle perdere tutto il potenziale”, a partire dal 2010 sono sbarcati nelle sale numerosi adattamenti dei grandi classici Disney. O, come li chiamo io, capolavori a metà. Teoricamente, tutte le pellicole tradizionali (quelle girate con attori in carne ed ossa) sono live action: ad eccezione chiaramente dei film d’animazione i quali, come si evince dal nome che portano, fanno riferimento a disegni animati. E’ troppo facile dimenticarci che dietro i capolavori della nostra infanzia c’è un team di disegnatori e grafici dal talento straordinario, in grado di dare vita fotogramma dopo fotogramma a film che hanno accompagnato la nostra crescita.
Il problema fondamentale che sta dietro ai live action dei grandi classici Disney (al di là delle differenze a livello di trama) non riguarda tanto il cosa si porta in scena, quanto il come lo si porta. Il materiale di base è sempre quello, e la qualità è innegabile: stiamo parlando di storie e fiabe vecchie di secoli eppure attuali ancora oggi. Racconti provenienti da tutto il mondo adatti ad un pubblico giovane e, forse perché così semplici, tremendamente incisivi. Eppure sembra che, pur di rimanere attuali e inclusivi, vengano sacrificate le caratteristiche fondamentali dei film d’animazione a favore di prodotti che sì, sono realistici, ma appaiono come brutte copie sbiadite. E se è pur vero che in un’epoca come la nostra bisogna fare attenzione alle problematiche attuali, il rischio è quello di perdersi per strada.
In nome del politically correct, del realismo e dell’inclusività i live action finiscono per abbandonare i tratti fiabeschi che li caratterizzano. E così si finisce per sacrificare la poesia.
Facciamo qualche esempio. Nel 2020 è uscito il live action di Mulan, film d’animazione del 1988 e capolavoro sui generis: ispirato all’antica leggenda cinese della guerriera Hua Mulan, il cartone di quasi vent’anni fa ha ispirato milioni di ragazzine in tutto il mondo ricordando loro che le eroine, quelle vere, non sono sempre le principesse più tradizionali. Un prodotto già avanti per il suo tempo, un racconto per certi versi spietato e molto realistico della Cina durante gli anni della dinastia Han. Ecco, uno dei film che più di tutti insegna come le donne spesso e volentieri si salvano da sole si perde per strada fin dall’inizio. Soprattutto non riesce a trasmettere il senso fondamentale del racconto, quello di una donna che lotta con le unghie e con i denti per farsi strada in un mondo dominato dagli uomini. Le immagini sono spettacolari, la storia è coinvolgente; oltre a questo, si può davvero dire qualcosa di più?
Parliamo anche del live action de Il re leone, prodotto che per primo è stato vittima di feroci critiche proprio a causa dell’eccessivo realismo che lo caratterizza. Parliamoci chiaro: il film è un capolavoro di tecnica. Sembra quasi di toccarli, i leoni; se ci avvicinassimo un po’ di più allo schermo ci ritroveremmo in mezzo alla savana sotto il sole cocente. Eppure, manca qualcosa. I felini così spaventosamente realistici peccano di espressione, di tempi comici: manca tutta quella componente “da cartone” che caratterizzava il film del 1994. Sembra tutto troppo vero, quasi un documentario. Anche se dobbiamo ammetterlo: la morte di Mufasa ci ha spezzato il cuore per l’ennesima volta.
Tutto questo non vuol dire che i live action, genericamente parlando, siano un buco nell’acqua. Soprattutto se si pensa a quei prodotti firmati da registi che hanno fatto la storia del cinema. Alice in Wonderland, che porta la firma di Tim Burton, riesce a comunicare in pieno il senso di disagio, spaesamento e per certi versi terrore che abbiamo provato tutti nel leggere per la prima volta Alice nel paese delle meraviglie. O ancora Cenerentola di Kenneth Branagh, semplice nella sua canonicità eppure meravigliosamente fiabesco. Una favola in tutto e per tutto.
Se Disney+ vanta nel suo catalogo alcune tra le migliori serie televisive originali degli ultimi anni, per quanto riguarda i live action sembra ci sia ancora molta strada da fare. In alternativa si potrebbe pensare di prenderne un’altra, di strada. Perché la verità è che le favole vanno adattate, non modificate. Ai giorni nostri, dove sembra essere diventato più importante il modo di raccontare le storie piuttosto che le storie stesse, non dobbiamo dimenticarci una cosa: le favole, sono tutti i fronzoli, dipingono l’uomo nella sua totalità. Lasciamole così come sono, anche se non ci vanno troppo a genio.