Vedo la gente morta
Quanto è incredibile il cinema per permetterti di associare a poche, semplici parole, un universo di sensazioni ed emozioni. Ricordi associati indelebilmente a quella pellicola, che si staglierà nella tua memoria lasciando un solco indelebile. “Vedo la gente morta”. Una di quelle frasi da manuale del cinema che nella vita hai sentito per forza. Anche solo come citazione, senza aver mai visto il film di provenienza. Una frase alla pari di “Sono tuo padre” o “Il mio tesssoro”, di quelle che ti rendono eterno. Quattro parole che hanno lanciato la carriera di M. Night Shyamalan, incidendo il suo nome nella sacra bibbia di quella casta hollywoodiana nota come “registi autoriali”.
Gli inizi e i grandi successi di M. Night Shyamalan
Da oltre due decenni, M. Night Shyamalan persiste e resiste nella competitiva macchina cinematografica che non perdona nessuno. Nemmeno i grandi nomi. Vedi Francis Ford Copppola. Una carriera, quella di Shyamalan, caratterizzata da grandi successi e momenti di crisi, ma sempre con quel tocco unico e distinguibile che ha consolidato il suo posto tra i narratori più intriganti del cinema contemporaneo. Nel 1999, un esordiente regista di origini indiane, senza alcuna esperienza alle spalle, scuote il mondo con un certo film. Il Sesto Senso, con protagonista Bruce Willis, parla di fantasmi e racconta la storia di un bambino che può vedere e parlare con i morti. Niente di nuovo sotto il sole, dunque? Sbagliato, perché basta un unico e clamoroso colpo di scena ben assestato alla fine della pellicola per riscrivere completamente le regole. Ed è considerato oggi uno dei migliori film horror della storia.
Il Sesto Senso diventa così una pietra miliare del cinema, una ghost story che fa da apripista per molte narrazioni future. Un film che mette in chiaro lo stile di Shyamalan e la sua predilezione per il colpo di scena.
Il successo del film gli permette di sperimentare con nuovi stile e tematiche. Nel 2000 dirige Unbreakable (con Bruce Willis e Samuel L. Jackson), un’originale riflessione sui supereroi che mescola toni cupi e filosofici, anticipando in modo unico il boom del genere cinematografico che avrebbe conquistato Hollywood negli anni successivi. Nel 2004 esce The Village, una storia di suspense ambientata in una comunità isolata che vive nel terrore di creature misteriose che popolano i boschi circostanti. Anche qui, M. Night Shyamalan gioca con le aspettative dello spettatore, inducendolo a credere ciecamente in una verità che si rivela solo una grande farsa costruita nei minimi dettagli.
I primi flop del regista
Nello scorso decennio, il regista continua a sperimentare ma i risultati sono molto discutibili. Con Lady in The Water, si avventura nel genere fantasy, ispirato da una favola che M. Night Shyamalan raccontava alle sue figlie. Con The Happening, tenta per quello apocalittico con sfumature ecologiche. Mentre The Last Airbender, adattamento della popolare serie animata Avatar, non incontrò i favori né dei fan né dei critici, rappresentando uno dei punti più bassi della sua carriera. Ben lontano dalla complessità delle storie del primo periodo, Avatar The Last Airbender risulta in una accozzaglia confusa di elementi mal integrati tra loro, dove l’approfondimento psicologico dei protagonisti viene completamente lasciato alle spalle.
Ed è a questo punto che il regista decide di prendersi un paio di anni e ritornare, infine, alle origini.
Il rinascimento di M. Night Shyamalan
Nel 2015 esce The Visit, un film molto semplice, dal budget modesto e con attori semisconosciuti. Ben lontano dai blockbuster fallimentari degli anni precedenti, Shyamalan torna a un cinema di nicchia, riservato agli appassionati che non hanno smesso di apprezzare il suo lavoro. L’horror found footage non deluse le aspettative, riportando l’attenzione sulle due semplici caratteristiche che avevano fatto la fortuna del regista: la suspence e il colpo di scena. Un successo che si riconferma con Split, thriller psicologico con protagonista James McAvoy che adatta la storia vera di Billy Milligan (a cui è stata dedicata anche la serie tv The Crowded Room).
Sempre incline a sperimentare con nuovi genere e nuovi formati, M. Night Shyamalan mette un piedino nel mondo televisivo. Prima con Wayward Pines e poi con Servant (disponibile sul catalogo Apple TV+ qui). Quest’ultimo è un racconto angosciante che mescola horror, thriller e dramma attraverso una storia spirituale e non sempre di facile comprensione. Per ben quattro stagioni, ci addentriamo giù per la spirale discendente che è la storia dei coniugi Turner, la cui vita è stata sconvolta dalla tragica morte del figlioletto Jericho. Shyamalan prende dunque la paura più grande di qualsiasi genitore e ci costruisce attorno una storia angosciante. Qui cui reale e irreale, magia oscura e follia, fede e blasfemia si mescolano senza soluzione di continuità. Al nucleo familiare composto da Sean, la voce della ragione, e Dorothy si aggiunge Leanne, l’inaspettato terzo incomodo.
Ma chi è davvero la ragazza misteriosa? E chi è il bambino vero che adesso ha sostituito la bambola reborn?
Servant è un concentrato di misteri e inquietanti avvenimenti che si susseguono uno dopo l’altro entro i confini dell’appartamento dei Turner. La casa diventa insieme rifugio sicuro e trappola senza via di uscita, dove la tragedia di Turner continua a consumarsi in un loop di senso di colpa infinito. Le mura domestiche diventano dunque metafora di quella prigione fisica e mentale in cui tutti i personaggi sono prigionieri.
Old e Knock at the Cabin
Una montagna russa di alti e bassi, la cinematografia di M. Night Shyamalan. Un regista che ha deciso, fin dal suo debutto, di correre dei rischi, andando incontro a clamorosi successi o disastrosi fallimenti. Eppure, proprio in questi risultati diametralmente opposti possiamo individuare il rifiuto per le mezze misure. Di certo il cinema di Shyamalan non lascia indifferenti e continua ad alterare trionfi a sconfitte sia tra il pubblico di appassionati che tra le fila di critici.
Il body horror Old dimostra, nuovamente, il talento di M. Night Shyamalan come regista, forse prima ancora che come sceneggiatore. Sulla spiaggia tropicale che accelera l’invecchiamento, i protagonisti si ritrovano ad affrontare non solo l’orrore causato dalla circostanza in sé e per sé ma anche i risvolti morali, sociali e psicologici che tale situazione scatena. Quando tutta la tua vita viene ridotta a un solo giorno, che cosa rimane? Cosa resta dei rapporti con i tuoi cari? Quale ricordo porterai con te di una vita vissuta in un battito di ciglia? La premessa di Old porta i personaggi a esplorare lati molto oscuri dell’essere umano e spinge noi spettatori a riflettere attentamente e a guardare oltre la semplice vicenda. Alle domande che abbiamo posto prima Shyamalan risponde. Se in maniera criptica o meno, sta a voi decidere: i bambini.
I bambini rappresentano il passato, il presente ma soprattutto il futuro dell’umanità e sono loro a conservare la memoria e a perpetrarla nel tempo. Di generazione in generazione.
Il tema centrale dell’infanzia e dell’innocenza torna prepotente anche in Knock at the Cabin. In questo caso il regista decide di cambiare spudoratamente il finale originale del libro, decisamente più cupo e pessimista, per concedere un lieto fine e una flebile luce di speranza. Stavolta la posta in gioco non è soltanto un gruppo di sconosciuti su una spiaggia deserta, ma l’umanità intera il cui destino viene lasciato nella mani di una famiglia. Questa è chiamata infatti a decidere se salvare loro stessi o il resto del mondo. Un sacrificio dopo l’altro, una piaga dopo l’altra, Eric e Andrew tentano di trovare un senso all’inspiegabile che stanno vivendo mentre l’orologio dell’Apocalisse è sempre più vicino a scoccare la mezzanotte.
Siamo indubbiamente di fronte a un cinema più maturo, che riflette il percorso di vita del regista e il tempo storico che tutti noi stiamo vivendo. M. Night Shyamalan è meno ottimista rispetto al passato, incline a sottolineare l’ossessione dell’uomo moderno per l’apparire e il mostrare piuttosto che per l’essere. Il colpo di scena, così caro al suo cinema, manca di mordente nelle ultime pellicole forse proprio perché ormai l’ovvio è molto più spaventoso di qualsiasi plot twist.
TRAP – L’ultimo film di M. Night Shyamalan
L’ultima pellicola di M. Night Shyamalan, dunque, non può che confondere. Difficile inserirla in una posizione precisa nella classifica della sua cinematografia. Siamo forse più verso la parte del flop che in quella dei grandi titoli memorabili. Forse, un po’ alla pari di Old, Trap presenta delle ottime premesse ma non riesce a sfruttarle fino in fondo. Quale è il criterio che spinge a pensare sia una buona idea combinare insieme thriller e concert movie? Perché, di fatto, Trap è proprio questo. In un contesto limitato e isolato come il concerto di una pop star dai rimandi Taylor Swiftiani, il nostro serial killer di turno si trova intrappolato con la figlia al seguito. Intenzionato a non farsi prendere e a trovare a ogni costo una via di fuga, tale Cooper – vigile del fuoco di giorno e killer di notte – avvia un machiavellico piano per riuscire ad allontanarsi senza destare sospetti.
Ovviamente, la figliola non ha idea che suo padre sia il famigerato “macellaio” a cui la polizia sta dando la caccia, e si indispone solo un pochino quando lo vede andare in bagno ogni cinque minuti. Ecco dove l’ingranaggio della macchina Shyamalan inizia a fare le bizze. Perché anche alla suspension of disbelief c’è un limite. E il regista, che la sfrutta sempre con il massimo rispetto e cura, qui ha deciso di farne una scorpacciata piena. Dimenticando però che il pubblico non è poi così facilmente “gabbabile”.
La prima parte della pellicola è una surreale caccia al gatto con il topo, in cui nulla di quello che succede sullo schermo potrebbe essere plausibile nel mondo reale.
La critica che sottilmente M. Night Shyamalan vuole rivolgere sulla dipendenza da cellulare e l’incapacità di vivere il momento si perde all’interno di una storia che si trascina tra un dialogo inverosimile e l’altro. Il focus non è mai centrato. Come se stessimo inquadrando il soggetto per una foto e spostassimo di continuo la camera decentrando così il fuoco. Quindi si tratta di un film ridicolo? Sì, ma bisogna ammettere “meravigliosamente ridicolo”. Perché lo stile di Shyamalan emerge da ogni singola inquadratura e frame salvando parzialmente Trap. Almeno per la prima metà della pellicola.
La seconda metà, invece, è talmente inverosimile e forzata da non essere in alcun modo giustificabile. Non si tratta più di un thriller, né di un mistery e ogni traccia di suspence viene totalmente sacrificata in nome di un non ben definito sviluppo di trama con conseguente spiegone. Inutile. Josh Hartnett è terrificante in alcuni momenti e macchiettistico in altri. Shyamalan confeziona una pellicola incerta, in cui buona parte del minutaggio sembra essere riservato a far vedere quanto sia brava sua figlia a cantare.