C’è sempre una certa curiosità incalzante di fronte a un biopic. Soprattutto se, come nel caso di Maestro, il biopic in questione riguarda una personalità di spicco dalla vita tormentata. Si tratta di quella stessa morbosa attrattiva che si prova per i true crime sui più grandi serial killer della storia. Per i reality sulle vite scandalose di gente con un mucchio di soldi (senza alcun talento). O ancora per le serie tv ispirate a dinastie intoccabili. Un fascino che attraversa la storia del cinema, soprattutto quello hollywoodiano. Perché Hollywood ci tiene particolarmente a nuotare – anche sguazzare un po’ – in quelle turpi storie di tradimenti, fallimenti, cadute e ascese dei suoi stessi miti. Come se raccontarli su pellicola servisse, in qualche modo, a renderli più umani e raggiungibili.
Oppure il fine diventa esattamente l’opposto e anche l’essere umano più fallibile è vestito improvvisamente con ali e aureole. Bohemian Rhapsody è un esempio lampante di questo processo di santificazione da parte di Hollywood.
In Maestro, invece, Bradley Cooper mette da parte i fronzoli raccontando un uomo geniale ma imperfetto.
Per farlo si serve di una regia imparziale, che scruta con attenzione nella vita privata e, soprattutto, nel matrimonio di Leonard Bernstein. Ed è proprio quel legame d’amore con la moglie Felicia Montealegre a costituire il cuore pulsante di un film che, altrimenti, non avrebbe davvero nulla da dire. La storia ha inizio nel 1943, quando a un Bernstein venticinquenne viene finalmente offerta l’occasione per dare sfoggio delle proprie abilità. Il risultato è un successo e Bernstein inizia a farsi un nome. Un paio di anni dopo, Lenny e Felicia si incrociano durante una festa organizzata da una comune amicizia.
Tra loro scatta subito la scintilla ma il fidanzamento avviene solo dopo qualche anno ancora. Lenny è infatti indeciso sul da farsi, conscio della sua anima libertina e della pulsione sessuale per gli uomini oltre che per le donne. Felicia, consapevole a sua volta della situazione, decide ugualmente di sposarsi accettando Lenny così come è.
Ma Felicia, pur essendo un’artista e un’attrice in ascesa, è anche inevitabilmente legata alle aspettative del tempo e al ruolo che la società ha scelto per lei. Moglie e madre in primis, poi tutto il resto. Così, un figlio dopo l’altro, la libertà di Felicity diminuisce mentre aumenta quella di Lenny, sempre più ardito e licenzioso. Anche a discapito della serenità coniugale. Tra alti e bassi, il matrimonio dei Bernstein viene esposto sulla pubblica piazza del cinema, raccontandone l’inizio, lo svolgimento e la fine nel 1978, anno della morte di lei.
Per farlo, il regista Cooper decide di dividere Maestro in tre macro sezioni che corrispondono alla giovinezza, alla maturità e alla vecchiaia non solo della coppia ma di Lenny Bernstein stesso.
Tre incursioni nella vita di questi due amanti, sposi e amici girate da Cooper attraverso due lenti diverse, una in bianco e nero e una a colori. Come se la prima metà di Maestro rappresentasse il sogno, il nostalgico passato di una Hollywood che non è mai davvero esistita ma alla quale, ancora oggi, cerchiamo di aggrapparci disperatamente. A questo idilliaco passato si associa dunque anche l’ascesa di un sognatore come Lenny e gli inizio della sua storia d’amore con Felicia, ancora incorrotta dal tempo impietoso.
I colori, invece, ci riportano Maestro alla realtà. Ed è qui che si consuma il dramma familiare dei Bernstein ma anche il successo conquistato a caro prezzo del nostro protagonista. Più passano gli anni, più Lenny si fa indiscreto, insaziabile e irrequieto. Il suo desiderio di fama e sesso supera ogni cosa, persino l’affetto e il rispetto nei confronti della moglie, relegata in un angolino delle sua personale casa delle bambole. Ciò che Bernstein vuole, Bernstein ottiene. Tutto ciò che resta da fare a Felicia è, prima tentare disperatamente di allontanarsi dalla sua aura di influenza, poi comprendere che non esiste alcuna vita di fuga dal suo amore e dal suo attaccamento. I due si lasciano per un certo periodo ma poi tornano insieme e insieme rimarranno fino alla fine.
Una regia ineccepibile, quella di Maestro. Un’interpretazione, quella di Carey Mulligan, che la conferma un’attrice tanto talentosa quando sfortunatamente sottovalutata. Tutto il resto è noia.
Così come già accaduto in A Star is Born, Bradley Cooper confeziona un’opera di pregiata fattura ma priva di sentimento con Maestro. Se la regia ha dei guizzi fantasiosi e compie scelte audaci, la sceneggiatura si trascina stanca e confusa per più di due ore. Sono soliloqui ridondanti, riflessioni senza emotività quelli che vediamo susseguirsi uno dietro l’altro senza capo né coda. La storia, i personaggi, il dramma stesso, non sono mai messi in scena in maniera semplice e chiara. Si fa fatica a ripercorrere gli eventi, a capire i rimandi a questo o quel personaggio. Quasi come se lo sceneggiatore Cooper avesse pensato a dei compiti per casa da farci svolgere durante la visione della pellicola. Si procede per non detti, per impliciti che però non dovremmo riempire noi pubblico.
Non stiamo giocando alla Settimana Enigmistica in riva al mare, stiamo guardando un biopic che, seppur in maniera non eccessivamente didascalica, dovrebbe raccontarsi da solo. Inoltre, il succoso materiale di partenza che è la vita di Leonard Bernstein viene toccata solo in superficie, soffermandosi sul matrimonio e poco altro. Qualsiasi altro aspetto viene volutamente tralasciato, accennato appena. Quella pulsione al dramma, quella fama per lo scandalo, qui manca completamente scadendo nell’opposto. Ed è sempre meglio una via di mezzo. Maestro si presenta come un esercizio di stile, una lezione di regia ma che non lascia molto altro allo spettatore. Chi è stato davvero Leonard Bernstein? Quali perturbamenti dell’animo hanno influenzato la sua musica? E da dove avevano origine? Il suo unico amore è stato davvero solo Felicia e gli uomini rappresentavano una piacevole distrazione?