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Il film della settimana: Midsommar – Il villaggio dei dannati

Midsommar
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Tutti abbiamo vissuto quella spiacevole situazione raccontata brillantemente da Zerocalcare in Strappare lungo i bordi: chi non è mai stato ore a scorrere i film sulle piattaforme streaming e non trovare niente da vedere pur avendo a disposizione “tutto l’audiovisivo del mondo” e pensando “è possibile che son tutti film de m*rda”? Certo, la roba bella magari l’abbiamo già vista, altra siamo in ritardo e altra ancora la teniamo per il momento giusto – se arriverà. Vogliamo evitare, però, di finire nella fantascienza polacca del ‘900 in lingua originale, andare a letto frustrati con la nostra coscienza sottoforma di Armadillo che ci costringe a interrogarci su noi stessi dicendo: “Dai su, se su ottomila film non te ne va bene manco uno, forse sei te che non vai bene”. Proprio per questo nasce la seguente rubrica settimanale, in onda ogni lunedì e rivolta sia a chi la pellicola in questione non l’ha mai vista, sia a chi l’ha già visionata e vuole saperne di più: infatti, nella prima breve parte vi consigliamo un film; nella seconda invece ve lo recensiamo, analizziamo o ci concentreremo su un aspetto particolare. E questa settimana abbiamo scelto Midsommar – Il villaggio dei dannati.

PRIMA PARTE:  Perché, dunque, vedere Midsommar – Il villaggio dei dannati? Ecco la risposta senza spoiler

Disponibile su Netflix, Amazon Prime Video e Timvision (a noleggio su Apple Tv e Chili), Midsommar – Il villaggio dei dannati è incentrato su Dani, una giovane ragazza splendidamente interpretata da Florence Pugh. La sua vita viene sconvolta dal terribile gesto della sorella bipolare, che uccide sé stessa e i loro genitori. Così, seppur controvoglia perché vorrebbe lasciarla, il suo ragazzo Christian la porta con sé nel viaggio in Svezia che aveva organizzato con i suoi amici (e che non le aveva detto). Una volta arrivati, si ritrovano nel pieno dei festeggiamenti della festa di Mezza Estate nel paese di Harga. Ma quell’evento diverrà ben presto un autentico incubo, una volta che i locali riveleranno la loro vera natura. Il tutto alla luce di un sole che non tramonta mai.

Ispirandosi a Bergman, Brooks e Kubrick, Midsommar si rivela allora non essere il classico horror che vuole terrorizzare il pubblico con omicidi, sparizioni o eventi sovrannaturali. Lo stesso regista, Ari Aster, l’ha definito una favola per adulti:

“ Una specie di fantasia perversa o di illusione, con al centro Dani e il suo dilemma”

Attingendo a un immaginario fatto di tensione perenne, violenza esplicita e una narrazione costruita sulla minaccia imprescindibile, il regista trasforma questi elementi in un pretesto per scavare dentro lo spettatore e inquietarlo facendogli provare tutto il malessere interiore dei personaggi. Solo in superficie è la storia di Dani e del suo viaggio in Svezia, ma in profondità e in pieno accordo con il nostro tempo, Aster mette in scena, attraverso le sfumature dell’horror e con una grande libertà rispetto ai cliché del politicamente corretto hollywoodiano, temi come il lutto, i legami umani, l’empatia, la famiglia, la violenza psicologica di alcuni rapporti sentimentali, il concetto di autodeterminazione femminile. Ed ecco perché, nella seconda parte dell’articolo, verrà approfonditamente analizzato Midsommar, un film sottovalutato e adatto a chi ama il genere ma è stanco dei suoi meccanismi e per chi vuole sperimentare una forma diversa di terrore psicologico.

SECONDA PARTE – L’analisi e la spiegazione di Midsommar – Il villaggio dei dannati

Midsommar

Ciò che dà il via all’azione in Midsommar è la perdita di Dani. Un personaggio che, fin dall’inizio, viene presentato come rotto, sfumato, segnato da problemi che richiedono l’uso di calmanti per avere un po’ di tregua. Le inquadrature stesse evidenziano queste caratteristiche: spesso viene ripresa attraverso il suo riflesso per indicare un’identità ancora offuscata, in cerca della salvezza e di un luogo da chiamare casa. Si vede questo suo desiderio nella scena degli allucinogeni, dove la sua mano si fonde con il terreno coprendosi di erba e i suoi piedi diventano radici ancorate al suolo. È un posto, però, che non troverà mai in Christian. Troppo disattento e menefreghista, tanto da definirla isterica, dimenticarsi del suo compleanno e non consolarla mentre piange disperata, come se non provasse dispiacere per il grave lutto della ragazza.

Con il viaggio in Svezia – il cui sole perenne e caldo contrasta con l’anima buia della protagonista – Dani spera di superare il lutto, anche se le allucinazioni dei suoi cari defunti continuano a perseguitarla persino in quell’apparente ameno paesino. Il suo tentativo è disperato perché la sua afasia è tale che non riesce a parlare della sua famiglia senza sprofondare nel panico.

Ecco che l’horror diviene un modo per elaborare il lutto e razionalizzare l’osceno (ovvero, ciò che rimane fuori dalla scena). Ma Aster va ancora oltre in Midsommar.

Riprende un topos tipico del genere, ovvero la strage iniziale che necessita di una vendetta o di una spiegazione, per attirarci nell’orrore rappresentato dall’esistenza stessa. Dove il lutto è solo lutto, senza che abbia per forza un significato o anticipi quel che avverrà. Semplicemente, è il terreno attraverso cui guardare l’evoluzione dei personaggi e l’impostazione tecnica di Midsommar rafforza questa idea. Infatti, la camera è fissa e inquadra tutta la scena; gli attori rimangono sempre alla stessa altezza, dandoci l’illusione di essere insieme a loro; ogni cosa avviene sul palcoscenico senza però riprodurne l’effetto, grazie agli specchi che permettono agli attori di voltare le spalle alla cinepresa e mostrare ugualmente l’espressività del viso.

In un momento così difficile e doloroso, Dani è completamente isolata.

Non solo Christian è totalmente indifferente nei confronti dei sentimenti della sua ragazza e ne ignora volontariamente la fragilità emotiva o le preoccupazioni, ma nemmeno gli amici sono in grado di colmare il vuoto dentro di lei o mostrarle un minimo di empatia. E poi giunge ad Harga, un paese che l’attrae e la disgusta allo stesso tempo e dove veniamo immersi grazie all’originale capacità di quest’horror di far leva sul perturbante e non sulla paura. Nonostante Harga presenti un’atmosfera minacciosa, i legami solidissimi tra gli abitanti e l’allegria delle danze esercitano una fascinazione alla quale Dani, con il passare del tempo, non riuscirà più a resistere. Del resto, a differenza di Christian & CO. che osservano quel mondo con occhio scientifico e offuscato da una presunta superiorità intellettuale essendo laureandi in antropologia, lo sguardo di Dani è più emotivo e senza preconcetti.

Un punto di vista che ci accompagna per tutto il film e con il quale viene affrontata la questione femminile. La comprensione della sua interiorità, infatti, non si trasforma in una giustificazione per un ipotetico percorso di redenzione e il cliché della donna forte viene ribaltato attraverso il tema della manipolazione e dell’illusione della libera scelta. Il tutto inserito in un luogo dove le donne usano gli uomini per ottenere quello che vogliono, giusto o sbagliato che sia.

Già perché, dopo il tradimento di Christian e le lacrime di Dani, le donne di Harga l’abbracciano e iniziano a piangere insieme a lei, condividendone letteralmente il dolore in una simbiosi che la ragazza non aveva mai sperimentato. È la solidarietà il valore fondante di Harga, come si vede nel corso di Midsommar quando gli abitanti urlando di dolore assieme all’anziano caduto dalla rupe e alle vittime sacrificali avvolte dal fuoco o le donne sospirano intorno all’unione sessuale di Christian e Maja.

Midsommar

Il momento in cui Dani, in quanto Regina di Maggio, deve scegliere la nona vittima sacrificale tra Christian e un locale selezionato a caso è fatidico.

Innanzitutto, un piccolo inciso sul numero 9, attorno al quale ruota tutta la vicenda. Sono 9 i sacrifici da compiere e 9 le donne che assistono al rituale sessuale. Sono suoi multipli i cicli della vita di un cittadino di Harga: la primavera va da 0 a 18 anni, l’estate fino ai 36, l’autunno raggiunge i 54 e con l’inverno e il compimento del 72esimo anno si completa l’ultima fase. Questo perché il 9 rappresenta la completezza e il destino; quello che, dunque, si trova ad affrontare Dani mediante la sua decisione. Col cuore distrutto, indurita e furiosa, condanna a morte Christian. Si rende conto che lui è la fonte di dolore di cui si deve liberare, passando dall’essere evitata e respinta a venir amata e venerata. A far parte di una famiglia. Lasciando bruciare Christian in quella pelle d’orso nel tempio, Dani elimina l’ultima relazione rimastale e che la stava consumando, espiando la sofferenza e rinascendo.

Del resto, Aster ha definito Midsommar un film sulla rottura e ha comparato il fuoco del tempio al bruciare la scatola contenente gli oggetti dell’ex, una sorta di purificazione post-rottura, solo più estrema.

Anche i fiori testimoniano il suo nuovo inizio. La corona che viene fatta indossare a Dani è piena di crisantemi, nel cristianesimo associato ai defunti. Anche l’eucalipto e il ruscus vengono usati per i funerali. Quando invece indossa il costume da Regina di Maggio, ci sono fiori dai colori intensi e verdi a foglia larga (ma non quelli nominati in precedenza). Dunque, prima ha dovuto “uccidere” la vecchia sé per poter fiorire nuovamente, in un percorso rappresentato dalla runa a forma di R e in un risveglio esemplificato della clessidra, simboli presenti entrambi sul suo abito.

Una storia che, in un certo senso, era sotto i nostri occhi fin dall’inizio, anticipata dai dipinti inquietanti e disagianti (poiché mostrano sangue, fuoco, violenza e sesso distorto; basti pensare al rituale d’amore di Maja, illustrato in uno degli arazzi della stanza) che si trovano nella camera dei ragazzi ad Harga e, soprattutto, dal quadro che apre il film. Al suo interno è rappresentato un suicidio, il viaggio verso il villaggio e la danza che poi Dani e le ragazze faranno per diventare la nuova Regina di Maggio. Dopo che il personaggio di Florence Pugh ha appreso della morte della sua famiglia, compare un dipinto che raffigura una ragazzina con una corona in testa vicina a un grande orso. I rimandi al finale di Midsommar, con Dani incoronata e Christian intrappolato in una pelle del medesimo animale, sono ben evidenti.

E la cosa ancor più disturbante in Midsommar è che, in questo sunny scary movie, non c’è il sovrannaturale.

Le forze del male vogliono la stessa cosa dei protagonisti: vivere e scampare alla morte. Attraverso l’incontro tra l’aperta civiltà occidentale e una più chiusa e dotata di un’altra moralità, Aster riscrive un altro cliché dell’horror. Lo fa, appunto, con quel giorno che non dà mai il passo alla notte e rende tutto visibile; attraverso anticipazioni e trappole narrative lasciate cadere nel vuoto, come una frase non considerata, un urlo non sospetto, una scomparsa che non desta interesse. E anche se i personaggi si rendono conto del pericolo, non impazziscono di terrore, scappano o innescano la lotta conclusiva. È l’horror che tenta di emergere, ma che poi viene rinchiuso in quell’insopportabile lutto che pervade la pellicola fin dall’inizio.

Finché non arriva il finale. Senza misteri, rivelazioni o scontri tra buoni e cattivi. In mezzo ai colori lucenti e alla musica da festa, non c’è il trionfo della Luce sull’Oscurità, ma la catarsi di ogni cosa. Dani accetta di unirsi agli antagonisti, non perché una forza sovrannaturale l’ha spinta, ma perché trova in quella comunità il senso della sua esistenza, la risposta a un bisogno primario dell’essere umano – e non importa il prezzo da pagare – che diviene poi il nucleo di Midsommar: l’importanza di condividere le emozioni, di qualsiasi tipo siano, per sfuggire all’orrore della solitudine. E allora sorride. Adesso non è più sola.

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