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10 straordinarie interpretazioni che si sarebbero meritate l’Oscar

Oscar
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Vincere un Oscar è il sogno di qualsiasi attore, che lavora duramente anima e corpo per regalare ai critici – e anche al pubblico – quell’interpretazione memorabile che finalmente lo porterà alla statuetta. Purtroppo però, certe volte non basta. Per quanto le ragioni possano essere logiche nella mente ma mai nel cuore, spesso l’attore con la performance migliore dell’anno vede il premio che avrebbe dovuto vincere nelle mani di un altro. Leonardo DiCaprio ne sa qualcosa e no, non lo troverete nell’elenco perché ci sono così tanti film per cui avrebbe dovuto vincere che dovremmo dedicargli un pezzo a sé. E non è nemmeno l’unico: basti pensare a Denzel Washington per Malcolm X o a Marlon Brando per Un tram che si chiama Desiderio. Ma loro almeno la nomination l’hanno avuta; c’è chi invece non c’è nemmeno arrivato, come Jodie Comer in The Last Duel o Kirsten Dunst in Melancholia.

Dunque, rendiamo giustizia a queste meravigliose interpretazioni sia maschili che femminili, analizzando 10 esempi che ancora ci fanno chiedere: ma come è possibile che non abbiano vinto l’Oscar? E la prima è davvero clamorosa.

Al Pacino ne Il Padrino – Parte II

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È bene cominciare subito da una delle decisioni più imperdonabili dell’Academy. Perché Al Pacino è così perfetto come Michael Corleone nel Padrino – Parte II, che non avergli dato il premio quell’anno è un insulto al cinema stesso. Avremmo forse potuto capirlo se a vincere fosse stata l’incredibile prova di Jack Nicholson in Chinatown, ma non quella di Art Carney in Harry and Tonto.

Infatti, la performance di Al Pacino è uno dei pezzi di recitazione più belli e immensi di tutti i tempi. Vengono i brividi sulla schiena solo a ricordarla. Attraverso un ottimo lavoro di sottrazione, ricco di sfumature – lontano dalle sue esibizioni più istrioniche e chiassose – e un’interpretazione sobria e interiorizzata, ci mostra la lenta e profonda trasformazione di Michael da semplice ragazzo italoamericano al boss mafioso più potente al mondo. Impeccabile in ogni scena, con una presenza sullo schermo forse mai vista finora e con quegli occhi marroni così straordinariamente espressivi che mostrano tutto il conflitto interiore e le emozioni di Michael, Al Pacino ci fa percepire il dolore e la tragicità che ogni sua azione comporta, strappandogli pezzi di quell’anima che, alla fine, gli verrà totalmente portata via.

Ed ecco come Al Pacino ha raggiunto l’immortalità artistica, anche senza l’Oscar.

Robert De Niro in Taxi Driver

Una delle performance migliori della storia in uno dei film più grandi mai realizzati. E che fanno gli Oscar? Lasciano a bocca asciutta sia Martin Scorsese, sia Robert De Niro.

Certo, non è uno di quelle pellicole che piacciono all’Academy: oscura, intrisa di sangue e violenza, con un finale ambiguo e un personaggio controverso che rimane intrappolato nella sua psiche danneggiata. Però non si può negare che, sebbene la performance di Peter Finch in Quinto potere sia memorabile, non raggiunga le vette toccate dal magnetico Robert De Niro con il suo Travis Bickle in Taxi Driver. È un mix perfetto di follia, inquietudine, solitudine, insonnia, empatia e orrore; converte il suo personaggio da psicopatico a eroe – e viceversa – in maniera così brillante che sentiamo sotto la nostra pelle il suo cambiamento da una fase all’altra.

L’impegno poi che Robert De Niro ci ha messo è incredibile: ad esempio, ha davvero guidato un taxi per le strade di New York per entrare nella parte, persino fino a dodici ore al giorno, studiando nel frattempo libri sulle malattie mentali. E che dire di quella scena? Robert De Niro aveva solo un’indicazione, ovvero “Travis parla da solo davanti allo specchio”, e l’ha resa leggendaria.

Naomi Watts in Mulholland Drive

La performance di Naomi Watts in Mulholland Drive è considerata una delle migliori di tutti i tempi e, sebbene quell’anno la concorrenza fosse elevata (c’erano Halle Berry, Judi Dench, Nicole Kidman, Sissy Spacek e Renée Zellweger), è davvero difficile capire il perché l’Academy non l’abbia presa minimamente in considerazione. Nemmeno per una nomination agli Oscar.

È il punto focale di una trama non lineare e complessa, calandosi perfettamente nei panni di un’aspirante e ingenua attrice dagli occhi spalancati e pieni di speranza, arrivata a Los Angeles per seguire un sogno che ben presto si trasformerà in un vero e proprio incubo. Da stellina stravagante e talentuosa passa a interpretare il ritratto di una donna fallita, tormentata, disillusa e depressa, senza perdere un colpo. Quasi come se fossero due persone diverse, Watts gestisce entrambe le parti con una fluidità tale che sembra non faccia nessuno sforzo. Dimostrando già da questo capolavoro di ruolo che lei può interpretare veramente qualsiasi personaggio femminile, perché mostra una gamma tale di emozioni che manca a molte attrici della sua generazione e non solo.

Con un’interpretazione unica, senza tempo e indimenticabile, in un film dalla bellezza estetica sublime, produce un momento di recitazione nella recitazione straordinario. Un esempio? La dannata scena del provino.

Ellen Burstyn in Requiem for a Dream

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Gli Oscar non erano pronti per Requiem for a Dream, né per l’incredibile e straziante performance di Ellen Burstyn nell’opera di Aronosky. E forse non lo eravamo nemmeno noi.

È vero che la nomination è arrivata, ma la vittoria è andata a una di quelle protagoniste che l’Academy ama particolarmente: la Erin Brokovich di Julia Roberts. Non che quest’ultima abbia fatto un brutto lavoro, ma Burstyn è stata semplicemente eccezionale. Ritrae perfettamente la confusione e il disorientamento di chi va fuori controllo, offrendo un affresco agonizzante e cupo sulla dipendenza. Affascinante tanto quanto inquietante, basti solo nominare il suo struggente e appassionato monologo su come ci si sente a essere vecchie per capire la grandezza della sua interpretazione. Girato in singola ripresa, si nota come verso la fine l’attrice esca brevemente dall’inquadratura: questo perché il cameraman stava piangendo e gli era sfuggita la camera per un secondo. Ma la recitazione di Burstyn fu così ottima che Aronosky decise comunque di tenere quel ciak.

Un momento brillante, come molti altri in cui l’attrice interpreta magnificamente così tante emozioni diverse che, senza di lei, il film non sarebbe stato lo stesso. E se ha influenzato un’opera come Requiem for a Dream così tanto, la Statuetta se la meritava a mani basse.

Jake Gyllenhaal in Lo sciacallo – Nightcrawler

Possiamo spiegare l’ingiusta esclusione di Jake Gyllenhaal dagli Oscar per Nightcrawler in vari modi: la competizione, i numerosi biopic di quell’anno, la poca pubblicità, il fatto che un personaggio così orribile come Lou Bloom alla fine non solo non si redime o non viene punito, ma vince pure. Però, pur con tutte le scuse del mondo, quella rimane la performance migliore del 2014 – e una delle migliori del decennio. E non premiarla è un affronto.

Nei panni del subdolo Lou, l’attore sembra svuotato, sembra che non dorma da giorni né sbatta mai le palpebre, ricordando fin troppo da vicino il Trevor Resnick di Christian Bale ne L’uomo senza sonno (e anche qui, nemmeno una nomination). Spietato e inquietante, è incredibilmente spaventoso: eppure, anche se lo vediamo mentire, manipolare e uccidere, c’è una piccola parte di noi che è sinistramente affascinata da questo ambizioso psicopatico. E non avrebbe mai potuto ottenere un risultato del genere senza l’attento equilibrio e la vasta gamma di emozioni che Gyllenhaal ha portato sullo schermo.

Cattura così bene il suo personaggio che diventa lui, anche grazie al suo impegno estremo: ad esempio, perse quasi 15 chili e, nella scena allo specchio, si tagliò il pollice ricevendo 46 punti di sutura e tornò 6 ore dopo l’intervento sul set per riprendere a girare.

Edward Norton in American History X

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A differenza del Lou di Gyllenhaal, il Derek Vinyard di Edward Norton si era redento eccome, ed era stato pure punito nel peggiore dei modi. Infatti, la nomination è arrivata, ma non la statuetta. Ora, molti potranno non essere d’accordo perché quell’anno a vincere è stato il nostro Roberto Benigni, ma erano altri due i grandi favoriti per la vittoria: Tom Hanks in Salvate il soldato Ryan e, appunto Edward Norton in American History X. Senza contare che rimase scandalosamente fuori dalla nomina la struggente interpretazione di Jim Carrey in The Truman Show.

Con Derek, Edward Norton affronta la caduta e la risalita dall’inferno; un viaggio ritratto con brutalità e violenza, senza compromessi, creando così un’opera che sia viscerale ed emotivamente provocatoria. L’attore ci mostra in maniera impeccabile la trasformazione del suo personaggio, passo dopo passo, a partire da quella scena iniziale che definire scioccante è un eufemismo. Del resto, la complessità del ruolo ha richiesto a Edward Norton una preparazione estrema sia fisicamente che psicologicamente. Forse mai come qui usa la sua fisicità, soprattutto nella prima parte del film, lasciando spazio nella seconda agli sguardi, da cui trapelano tutte le sue emozioni, e ai dubbi del personaggio.

È la sua performance a elevare American History X con una prova clamorosamente non premiata dagli Oscar.

Amy Adams in Arrival

La reputazione di Amy Adams con gli Oscar è tale che l’hanno nominata la nuova Leonardo DiCaprio, dopo che quest’ultimo aveva vinto con Revenant.

E qui davvero l’Academy ci deve far comprendere il motivo della sua esclusione, perché un senso non ce l’ha, dato che il successo di uno dei più importanti sci-fi contemporanei si deve alla sua splendida interpretazione. Ma forse la ragione è che Arrival appartiene ai cosiddetti “generi minori”? Altrimenti non si spiega.

Il suo lavoro è semplicemente sbalorditivo. Adams riesce a rappresentare ogni aspetto della sua Louise Banks con un’interpretazione sfumata, stratificata e che opera su più livelli. I suoi occhi sono tremendamente espressivi e, assieme ai suoi gesti, mostrano il conflitto interiore, il coraggio, la paura, l’empatia e la lotta contro chi vorrebbe ridurre gli alieni a semplici invasori. Intensissima e precisa all’ennesima potenza, a prima vista non sembra una dei quelle performance che urlano grandezza; eppure ogni cosa cambia una volta che Arrival svela il trucco nella sua parte finale. Infatti, il colpo di scena tanto decantato sarebbe fallito se non fosse stato per la straordinaria capacità di Adams di interpretare il crepacuore e il distacco allo stesso tempo.

Ralph Fiennes in Schindler’s List – La lista di Schindler

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Ogni grande eroe deve avere un nemico all’altezza. Ne sa qualcosa il Massimo Decimo Meridio di Russell Crowe: senza la magnifica interpretazione del Commodo di Joaquin Phoenix non sarebbe stata la stessa cosa nel Gladiatore. Un discorso più o meno analogo può essere fatto per l’Amos Goeth di Ralph Fiennes in Schindler’s List. Perché, per quanto la competizione quell’anno fosse alta (c’era anche uno straordinario DiCaprio in Buon Compleanno Mr Grape), Tommy Lee Jones sia un attore eccezionale e Il fuggitivo un bel film, siamo ancora perplessi su come Fiennes non abbia ottenuto l’ambita statuetta.

L’attore dipinge uno dei cattivi più agghiaccianti nella storia del cinema in maniera così magistrale che nessun altro avrebbe potuto farlo. Violento, sadico, il male puro in persona, lo incarna in modo così convincente che, quando dei sopravvissuti ritratti nel film sono stati invitati sul set durante le riprese, una di loro è quasi svenuta dal terrore dopo aver visto Fiennes in uniforme, perché le sembrava di avere davanti il vero Amon Goeth.

Forse è proprio questo il paradosso: ha interpretato troppo bene Goeth perché l’Academy volesse premiare un personaggio nazista, per di più realmente esistito. Però, il suo mancato premio resta una di quelle ingiustizie inspiegabili, anche dopo tutto questo tempo.

Tony Colette in Hereditary – Le radici del male

L’horror è un’altra di quelle categorie tristemente trascurate agli Oscar, considerando quanto riesca a esprimere e dire di noi. Rispetto alla quantità di film e attori, sono pochi quelli appartenenti al genere che sono stati nominati; ancor meno i vincitori. Chi avrebbe meritato almeno la nomination (ma pure la statuetta) è sicuramente l’immensa e straordinaria prova di Toni Colette in Hereditary.

Ari Aster crea un’opera spaventosa in cui vediamo una famiglia distruggersi dopo una perdita che si rivelerà fatale. Horror e dramma vengono gestiti in maniera egregia da Colette, che con un’interpretazione che porta al centro del film la devastazione della sua Annie. Mostra paura e dolore in modi così veri e crudi che rimaniamo scioccati, terrorizzati e affascinati dal puro livello di emozione sull grande schermo. Rappresenta una madre in maniera totalmente diversa dal solito, risultando essere quasi una sorta di Jack Torrance (il protagonista di Shining) al femminile, ovvero spaventosa, oscuramente divertente, dolorosamente straziante.

Grazie a Colette e ad Aster (che ripeterà la cosa con Midsommer – Il villaggio dei dannati e la bravissima Florence Pugh), l’horror è tornato alla ribalta e questo tipo di narrazione audace e senza compromessi è un qualcosa che l’Academy dovrebbe comprendere, accettare e premiare.

James McAvoy in Split

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La domanda sorge spontanea: quando un attore riesce a interpretare in quel modo un uomo con 24 personalità nel suo cervello, come si fa a snobbarlo completamente? Certo, l’arrivo di Split nelle sale non è stato d’aiuto, dato che non è uscito in tempo per gli Oscar più vicini ed era troppo lontano da quegli dell’anno successivo. Il che significa che le persone si sono dimenticate di Split e che la concorrenza si è fatta sotto (ed era particolarmente dura). C’è poi da aggiungere il tema complesso del film, classificato come horror psicologico, che non va proprio a genio all’Academy. Eppure la perplessità rimane.

Non è facile plasmare in pochi secondi personaggi così diversi, indipendentemente dall’età o dal sesso, riuscendo a dare giustizia e profondità a tutti con un’intensità e specificità scioccanti. È davvero convincente quando passa da una personalità all’altra, cambiando il linguaggio del corpo, l’accento e pure i suoi occhi. Da quelli capivamo perfettamente se davanti c’era Kevin, Barry, il piccolo Hedwig, lo spaventoso Dennis, la severa Patricia, la terribile Bestia e via dicendo.

Un minuto prima ci spaventiamo per Dennis, il secondo dopo volevamo solo abbracciare Hedwig. Ed è incredibile quanto sia vasto il suo range recitativo, come può adattarsi a ogni ruolo e riesca a rendere Split un film ancor più bello e riuscito.

Giunti alla conclusione dell’articolo, ci rendiamo conto che dieci esempi sono pochi (nonostante i nomi illustri come Al Pacino, Robert De Niro o Edward Norton). Per cui, lasciamo a voi l’arduo compito di continuare l’elenco dei non premiati dagli Oscar, chiedendovi: qual altri attori e attrici avreste inserito nel pezzo?