Vai al contenuto
Home » Film

Pain Hustlers – Il Business del dolore: la Recensione del film Netflix

Pain Hustlers - Il Business del dolore
Ma prima di continuare con la lettura abbiamo entusiasmanti novità da condividere con te. A breve sarà disponibile Hall of Series Plus, il nostro servizio in abbonamento che ti permetterà di accedere a moltissimi contenuti esclusivi e in anteprima.

Inserisci il tuo indirizzo email e clicca su ‘Avvisami’ per essere notificato quando Plus sarà disponibile.

* campo obbligatorio

ATTENZIONE: l’articolo contiene spoiler sul film Netflix Pain Hustlers – Il Business del dolore

Pain Hustlers – Il Business del dolore è il nuovo film Netflix firmato da David Yates, l’uomo dietro gli ultimi quattro film della saga di Harry Potter e i tre capitoli di Animali Fantastici. Dal magico mondo di Hogwarts a quello decisamente meno incantato degli oppioidi, perché Pain Hustlers – Il Business del dolore mette in scena la storia di una casa farmaceutica che produce un nuovo farmaco per trattare il dolore nei malati di cancro, il quale arriva, con metodi decisamente poco leciti, a una diffusione enorme, facendo le fortune del produttore, ma colpendo in maniera tragica i malati. La pellicola prodotta da Netflix si ascrive a un filone che negli ultimi anni sta vivendo un periodo davvero florido, ovvero quello della narrazione sulle case farmaceutiche e sul commercio pieno di ombre dei medicinali, specialmente quelli volti ad alleviare le sofferenze fisiche, che inevitabilmente si dimostrano alla stregua di stupefacenti. In un contesto decisamente denso, Pain Hustlers – Il Business del dolore forse non spicca, non aggiungendo granché alla narrazione generale, ma sicuramente presenta tratti molto interessanti.

La storia ruota intorno a Liza Drake, una donna divorziata, con una figlia da crescere in una situazione precaria. A completare il quadro c’è la malattia della piccola, una malformazione al cervello che le causa crisi epilettiche e che, qualora dovesse crescere, richiederebbe un intervento chirurgico che Liza non può lontanamente permettersi. La donna, dunque, interpretata da una splendida Emily Blunt (produttrice esecutiva del film), accetta l’offerta di lavoro di Pete Brenner ed entra nella Zanna, una casa farmaceutica sull’orlo del baratro. Sarà proprio Liza, però, non solo a salvare l’azienda, ma a lanciarla nell’olimpo del mercato, grazie al commercio del Lorafen, un farmaco associato alla cura del dolore nei pazienti oncologici. Di conseguenza, anche la vita di Liza migliorerà sensibilmente.

Come ci si aspetta da un film del genere, la prima parte è una rapida ascesa, con la diffusione del farmaco miracoloso, che restituisce la vita ai malati di cancro e riempie le tasche dell’azienda e dei suoi rappresentanti, che adoperano strategie ben oltre l’etica e la legalità per far prescrivere il medicinale. Poi, però, si scopre che quel farmaco proprio miracoloso non è, che crea dipendenza, che ha effetti collaterali, che porta alla morte. Da qui il baratro, con Liza che, tradita dall’azienda e rosa dai sensi di colpa, confessa tutto e aiuta la giustizia a smascherare la Zanna, pagando anche lei in prima persona col carcere.

Il tutto viene narrato con uno stile frenetico, che accomuna Pain Hustlers – Il Business del dolore agli altri film di questo filone, con una grande enfasi sul successo del farmaco e sulla pioggia di soldi e un’atmosfera entusiastica che rispecchia l’entusiasmo dei risultati ottenuti. Un incedere narrativo che sottolinea l’esagerazione della situazione, fatta di feste sfrenate, di comportamenti spregiudicati e di un’ostentazione che mal si concilia con la sofferenza di chi, in fin dei conti, porta a tutto questo lusso: i malati. Il risultato finale è un film decisamente onesto, che denuncia l’ambiguità morale di questo contesto e che è impreziosito da un cast stellare che pesa non poco sul risultato finale.

Pain Hustlers - Il Business del dolore
Pain Hustlers – Il Business del dolore (640×360)

Pain Hustlers – Il Business del dolore: una condanna assoluta

Al centro del racconto, e come poteva essere altrimenti, c’è chiaramente il delicato rapporto che s’instaura tra il business e il dolore, i due volti della medaglia che simboleggia l’azione della Zanna. Il dolore è, per la casa farmaceutica, un semplice mezzo per arrivare al profitto e tutti i protagonisti, piano piano, spengono la propria coscienza davanti alla pioggia di dollari che il commercio del Lorafen porta. Dottori e rappresentanti sono in Pain Hustlers – Il Business del dolore egualmente complici di un sistema malato, che lucra sulla sofferenza delle persone per arricchirsi senza un freno. David Yates nella sua condanna non fa eccezioni, investe tutti quanti, ponendo come unica bussola morale la stessa Liza Drake, colei che prima crea il sistema, e poi lo fa crollare.

Viene sottolineato, a più riprese, il meccanismo di auto-convincimento che s’innesca in questi casi. L’obiettivo è quello di portare il miglior farmaco possibile alle persone che ne hanno bisogno e per questo nobile fine è anche lecito agire in modo sporco, corrompere e aggirare la legge. Questo sarebbe un dilemma morale se solo quel farmaco, effettivamente, fosse così valido, ma in realtà nemmeno lo è. In Pain Hustlers – Il Business del dolore non c’è un ragionamento sulla linea di confine tra benessere del paziente e guadagno perché il primo è un elemento che non appartiene nemmeno all’equazione.

Rispetto ad altre narrazioni simili, dunque, il film di Netflix distrugge completamente qualsiasi dilemma etico, condannando semplicemente il sistema del mercato farmaceutico. Non è un caso che per la vicenda è stata scelta una storia di finzione, che ne rispecchia una vera, proprio per renderla il più universale possibile. Nel finale, infatti, non c’è redenzione: tutti pagano, anche la stessa Liza, visibilmente e sinceramente pentita e fondamentale nelle indagini. “Il dolore è dolore”, sottolinea Pete Brenner nel racconto e infatti il film sottolinea come non sia il caso, per nessun motivo, di metterlo in relazione col business, sempre distruttivo.

Liza e Pete: due protagonisti cinici, due grandissimi attori

Il punto di forza di Pain Hustlers – Il Business del dolore è sicuramente il suo eccezionale cast. A partire da Emily Blunt, sontuosa nei panni di Liza Drake, figura dominante del racconto. La donna, come abbiamo accennato nei passaggi precedenti, è la cifra etica e morale del racconto, nonostante non si risparmi una buona dose di cinismo. Ci troviamo davanti a un personaggio che vive una grande situazione di disagio, che riesce a costruirsi una fortuna, pur rendendosi conto dei metodi non ortodossi utilizzati, ma con la chiara giustificazione della malattia della figlia da arginare. A più riprese, Liza si chiede se stia facendo la cosa giusta e, quando ormai si è passato il limite, la donna decide di far saltare il banco, imponendosi alla fine come unico personaggio positivo del film, nonostante la sua ambiguità resti viva per tutto il racconto. Emily Blunt è semplicemente sensazionale nel restituire il dissidio e la controversia morale del personaggio di Liza Drake.

Ben più negative, invece, tutte le altre figure del racconto. A partire da Pete Brenner, interpretato da Chris Evans, anche lui veramente in forma nel suo ruolo di rappresentante farmaceutico senza scrupoli. I due personaggi più respingenti, però, sono senza dubbio Jack Neel, il fondatore della Zanna e mente dietro al Lorafen, e il dottor Lydell, il medico che per primo diffonde il farmaco presso i propri pazienti. Andy Garcia e Brian d’Arcy James si uniscono a un grande cast corale, che funziona moltissimo nella pellicola di Netflix.

In conclusione, dunque, Pain Hustlers – Il Business del dolore è un film discreto, che ha l’unico svantaggio nell’inserirsi in un filone che ultimante è molto ricco, per cui non aggiunge moltissimo alla narrazione generale. Di per sé, però, è una pellicola godibile, recitata alla grande e interessante per ragionare, ancora una volta, su un tema delicato come quello del mondo delle case farmaceutiche, pure se la riflessione è oscurata più che altro da una condanna generale, che lascia poco spazio ai dilemmi etici che invece sono particolarmente interessanti in questo campo.