Tutti abbiamo vissuto quella spiacevole situazione raccontata brillantemente da Zerocalcare in Strappare lungo i bordi: chi non è mai stato ore a scorrere i film sulle piattaforme streaming e non trovare niente da vedere pur avendo a disposizione “tutto l’audiovisivo del mondo” e pensando “è possibile che son tutti film de m*rda”? Certo, la roba bella magari l’abbiamo già vista, altra siamo in ritardo e altra ancora la teniamo per il momento giusto – se arriverà. Vogliamo evitare, però, di finire nella fantascienza polacca del ‘900 in lingua originale, andare a letto frustrati con la nostra coscienza sottoforma di Armadillo che ci costringe a interrogarci su noi stessi dicendo: “Dai su, se su ottomila film non te ne va bene manco uno, forse sei te che non vai bene”. Proprio per questo nasce la seguente rubrica settimanale, in onda ogni lunedì e rivolta sia a chi la pellicola in questione non l’ha mai vista, sia a chi l’ha già visionata e vuole saperne di più: infatti, nella prima breve parte vi consigliamo un film; nella seconda invece ve lo recensiamo, analizziamo o ci concentreremo su un aspetto particolare. E questa settimana abbiamo scelto è Seven.
PRIMA PARTE: Perché, dunque, vedere Seven? Ecco la risposta senza spoiler.
Doveva arrivare prima o poi il momento in cui vi avremmo consigliato questa pietra miliare degli anni ’90, un cult intramontabile che rilanciò David Fincher nel cinema, tanto che parecchi considerano Seven il suo reale esordio sul grande schermo, il primo vero film in cui mostrò la sua vena autoriale: senza questo thriller rivoluzionario oggi non godremmo di gioielli quali Zodiac o Mindhunter (e delle sue inquietanti storie vere); anzi, di Fincher così come lo conosciamo. E sarebbe un peccato.
Disponibile su Amazon Prime Video e Infinity, la trama di Seven vede protagonisti due detective con caratteri così diversi da risultare incompatibili: William Somerset è quello saggio, disilluso, rassegnato all’ineluttabilità di un male che non può sconfiggere e prossimo ormai alla pensione; David Mills è il giovane idealista, ambizioso e impulsivo, degno successore del primo. I due sono costretti a collaborare a causa di un serial killer che uccide le sue vittime seguendo i sette peccati capitali (lussuria, gola, avarizia, accidia, ira, invidia e superbia). Dopo le iniziali incomprensioni, i due trovano quell’affiatamento tale che li conduce sempre più vicini all’identità dell’assassino, fino a raggiungere uno dei finali più sconvolgenti nella storia del cinema, che ancora oggi ci fa chiedere: “Che cosa c’è in quella scatola?”
Come volle il suo autore, Seven è costantemente a cavallo tra analisi psicologica dell’io e studio della morale nella società, rappresentando l’indagine della polizia attraverso gli occhi dei protagonisti, interpretati in maniera impeccabile da Brad Pitt (Mills) e Morgan Freeman (Somerset). Un perfetto e geniale rompicapo immerso in toni oscuri e nichilisti, che riesce a essere horror versando pochissimo sangue. Lì bene e male si confondono, soprattutto nella figura del killer – il cui attore, che non vi sveleremo perché è parte del fascino della pellicola (e anche al tempo il suo nome venne tenuto segreto), ha regalato una delle sue performance migliori di sempre. Tuttavia, una delle cose più belle del film è l’ambientazione e come David Fincher l’ha costruita. Ed è ciò che andremo ad analizzare nella seconda parte del pezzo.
SECONDA PARTE: L’analisi dell’ambientazione di Seven e dei suoi significati
Quando guardiamo Seven, appare subito chiaro che David Fincher si sia ispirato ai noir degli anni ’40, che a sua volta guardavano alle opere dell’Espressionismo tedesco. Il regista non solo riprende quelle atmosfere tetre per trasmettere paura e pessimismo, ma le imprigiona in una città senza nome, claustrofobica, perennemente bagnata dall’incessante pioggia e anonima, perché non la vediamo mai interamente dato che le inquadrature della sua parte superiore vengono tagliate o omesse. È un luogo cupo, specchio della violenza e del dolore che regnano al suo interno e la cui oscurità è resa mediante un processo chimico applicato alla pellicola, in cui l’argento non viene rimosso e dunque contribuisce a creare quel tono visivo unico.
La città, dunque, è un personaggio reale tanto quanto lo sono i detective di Brad Pitt e Morgan Freeman; la sua desolazione, poi, incarna ottimamente la decadenza morale e la completa indifferenza della società.
Infatti, non è un caso che i personaggi secondari si trovino su sfondi grigi e spenti o che i campi lunghi non siano presenti (se non nell’epilogo): in questo modo esplode il costante senso di disagio dei protagonisti, perfettamente coerente con la narrazione. Del resto, è difficile vedere cosa stia succedendo, materialmente e metaforicamente, tanto per noi quanto per gli agenti. Stiamo tutti trovando la nostra strada in quel buio, con il Somerset di Morgan Freeman incaricato di guidare Mills (e il pubblico) attraverso il film e le sue molteplici connessioni letterarie: tra le altre, Il paradiso perduto di John Milton, un poema epico sulla caduta in disgrazia dell’umanità nel Giardino dell’Eden; La divina commedia, in particolare il Purgatorio; I racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer.
È attraverso quelle letture che la pellicola indaga la mente di John Doe; libri che non sono magari approfonditamente conosciuti (e ciò va a favore dell’opera, perché quello che non conosciamo, né comprendiamo ci spaventa), ma di cui siamo consapevoli del significato: qualcosa di malvagio.
Infatti, sono tutti legati al concetto dell’aldilà, in particolare della sua parte più oscura.
Inizialmente, però, più che l’inferno, la città in cui è ambientato Seven rappresenta una sorta di limbo simile al purgatorio dantesco: ad esempio, gli agenti di polizia sono interessati solo ai meccanismi di risoluzione dei crimini e preferiscono non andare oltre; bene e male sono concetti inutili e c’è solo disinteresse – o interesse personale. Mills e Somerset devono attraversare i sette livelli del purgatorio per giungere in paradiso, esattamente come Dante e Virgilio, che in un certo senso rappresentano. Se prendiamo in considerazione Milton, invece, la città incarna un giardino dell’Eden in rovina, senza frutti o fiori che lì possano crescere e in cui i novelli Adamo ed Eva (David e sua moglie Tracy) sono condannati a vivere. E il serpente è proprio quel John Doe che, stavolta, tenta e distrugge l’Adamo di Brad Pitt, trascinandolo all’inferno.
L’assassino – splendidamente interpretato da Kevin Spacey che ha retto perfettamente la pressione di questo ruolo chiave – è un uomo brutale e intransigente, che si assume l’onere di epurare il mondo dal peccato, attraverso una serie di omicidi che, nella sua visione, gli sono commissionati dal Dio spietato del Vecchio Testamento. Ma è pure il Diavolo anonimo, invisibile, portatore di dolore, che in sette giorni vuole distruggere ciò che, nello stesso tempo, secondo i testi religiosi, è stato creato da Dio. Sette – numero della divinità nella teologia cristiana – come gli ultimi giorni di lavoro di Somerset e i primi di Mills; come il numero dei peccati capitali e delle virtù.
Se Doe incarna i primi, il personaggio di Morgan Freeman è portatore delle seconde. Infatti, mentre nel film di David Fincher Mills e Somerset sono opposti binari (bianco: nero, vecchio: giovane, saggio: avventato, cinico: speranzoso), quest’ultimo e Doe sono più vicini l’uno all’altro di quando non pensano (ad esempio, sono gli unici in Seven ad avere una tessera della biblioteca e non è un dettaglio da poco): sono rispettivamente due angeli, quello guida e quello caduto che, guarda caso, porta il nome di Lucifero.
Tuttavia, raggiungere il paradiso in Seven non è possibile, trasformando l’ascesa al regno dei cieli in una discesa in quello degli inferi. Dove l’unico trionfatore è Satana.
Il momento clou è il faccia a faccia tra gli agenti e l’omicida in una delle scene che chi scrive non si stancherebbe mai di vedere. Il tensivo momento della resa di Doe, coperto da quello che poi si scoprirà essere il sangue di Tracy, si rivela solo un’illusione. Mentre lui racconta agli agenti i suoi crimini con devastante freddezza, Mills e Somerset pensano di aver vinto. Finché non arrivano nel deserto, di fronte a ciò che simboleggia il vaso di Pandora: la scatola. Quest’ultima, la prima donna mai esistita nella mitologia greca, lo aprì liberando il male e portando l’inferno sulla Terra. Esattamente quello che aspetta Mills.
Somerset dice a tutti di stare alla larga, per proteggere sé stesso e il suo partner. Ma perché allora non conferma o mente sul contenuto della scatola? Così, infatti, Mills legge la mancata smentita come una conferma della morte di Tracy. Dato che è il suo angelo-guida, Somerset non può mentire al personaggio di Brad Pitt, che deve avere il libero arbitrio per scegliere il bene sopra il male. Il paradiso, però, non ha più senso con la morte dell’amata e del figlio che portava in grembo (di cui il detective non sapeva niente). E allora, uccide con ira compiendo due peccati al prezzo di uno.
Eccolo il baratro infernale che ci conduce al finale; una discesa oscura rimarcata dalle scelte cromatiche. Morgan Freeman, infatti, viene introdotto nei colori scuri della città, perché Somerset in quell’ambiente sta annegando e l’unica cosa che vuole è lasciare questo luogo di odio e desolazione. Brad Pitt e il suo Mills, invece, sono visti per la prima volta con le tonalità calde della luce del giorno, in contrasto anche con l’acquazzone che, assieme alla disperazione dei colleghi e della città, presto laverà via il suo calore. La freddezza dei colori circonda ogni cosa nel film di David Fincher: gli omicidi di Doe (anche se più avanti aumentano le sfumature minacciose di rosso, qui inteso nei suoi significati negativi di odio, violenza e pericolo), l’apatia della polizia, la depressione generale, l’insensibilità delle masse verso le uccisioni.
Con l’apparizione di Doe, i colori divengono più caldi e smette di piovere. Questo perché il mistero sulla sua identità è svelato, perché il killer ha finito il suo lavoro e perché è un uomo chiaro nei suoi obiettivi e nella sua visione del mondo, cosa che i due protagonisti invece non sono. Incolpa, infatti, la società per aver lasciato campo a peccati che hanno corrotto l’umanità, guidata da quelle emozioni sfrenate che invece devono essere contenute e, paradossalmente, da un’apatia che colora il mondo di egoismo e follia: è per questo motivo che viene usata una tavolozza dai colori desaturati e privi di vivacità.
Servendosi dunque di tutti questi espedienti tecnici e narrativi, David Fincher trasmette infatti i temi alla base di Seven: da un lato entra nella mente del killer e la materializza in quella città, attraverso la sporcizia, la corruzione, il peccato e l’usura (simboli del suo disagio psicologico); dall’altro ci costringe a muoverci in un luogo non reale e, per questo, non identificabile. Né da noi, né dai personaggi di Brad Pitt e Morgan Freeman, le cui emozioni vengono enfatizzate dai chiaroscuri, con quella luminosità finale che ricalca uno dei messaggi lasciati da Doe:
“Lunga ed impervia è la strada che dall’inferno si snoda verso la luce”.
Elementi che disorientano perché, seppur l’ambientazione è talmente vivida che ne percepiamo ogni odore e colore, non siamo in grado di vederla nel suo insieme. Ed ecco che quella città ne incarna molteplici, persino la nostra, perché la perdita di etica coinvolge qualsiasi società e qualsiasi persona; in fondo è quello che ci suggerisce Doe in un film tanto bello e importante, quando oscuro e riflessivo:
“Vediamo un peccato capitale ad ogni angolo di strada, in ogni abitazione… e lo tolleriamo.”