Tutti abbiamo vissuto quella spiacevole situazione raccontata brillantemente da Zerocalcare in Strappare lungo i bordi: chi non è mai stato ore a scorrere i film sulle piattaforme streaming e non trovare niente da vedere pur avendo a disposizione “tutto l’audiovisivo del mondo” e pensando “è possibile che son tutti film de m*rda”? Certo, la roba bella magari l’abbiamo già vista, altra siamo in ritardo e altra ancora la teniamo per il momento giusto – se arriverà. Vogliamo evitare, però, di finire nella fantascienza polacca del ‘900 in lingua originale, andare a letto frustrati con la nostra coscienza sottoforma di Armadillo che ci costringe a interrogarci su noi stessi dicendo: “Dai su, se su ottomila film non te ne va bene manco uno, forse sei te che non vai bene”. Proprio per questo nasce la seguente rubrica settimanale, rivolta sia a chi la pellicola in questione non l’ha mai vista, sia a chi l’ha già visionata e vuole saperne di più: infatti, nella prima breve parte vi consigliamo un film; nella seconda invece ve lo recensiamo, analizziamo o ci concentreremo su un aspetto particolare. E questa settimana abbiamo scelto Shutter Island.
PRIMA PARTE: Perché vedere Shutter Island? Ecco la risposta senza spoiler.
Se non avete ancora guardato questo cult, è giunto il momento, anche solo perché le collaborazioni tra Martin Scorsese e Leonardo DiCaprio non falliscono mai. Disponibile su Sky, Now e Infinity (a noleggio su Amazon Prime Video e Apple Tv), l’enigmatico e inquietante Shutter Island non è catalogabile: c’è sì la componente thriller psicologica che troneggia, ma ci sono anche ampi sprazzi di horror, mystery, crime e neo-noir. La pellicola è incentrata su Teddy Daniels, agente dell’FBI chiamato a indagare con il suo partner Chuck sulla scomparsa di una paziente in un manicomio criminale su un’isola. Quell’incarico si trasforma ben presto in una lenta immersione nella psiche di un uomo in bilico tra un tragico passato e un nebuloso presente. Più i minuti passano, più la comprensione dei fatti diviene ardua, sfumata, piena di dubbi. E il coinvolgimento è tale che non si capisce più dove sia il confine tra realtà e sogno.
La telecamera di Scorsese si muove nel labirinto dell’isola, con colpi di scena che si susseguono incessantemente e l’ambiguità che domina ogni personaggio. DiCaprio poi, col suo Teddy, è artefice dell’ennesima intensa, drammatica e devastante performance. L’emotività è tale che coinvolge e conduce lo spettatore, assieme a lui, a quelle ultime battute che riassumono l’essenza del film e che portano a ragionarci sopra per ore dopo la visione, perché solo alla fine si capisce quanto sia grande. Una sola, però, non basta per comprenderne tutti i significati; dunque, dopo averlo visto (o rivisto), tornate qui per scoprirli e farvi sconvolgere la mente.
SECONDA PARTE CON SPOILER: Tutti gli indizi in Shutter Island che portano a quel finale
Come già menzionato, per capire la grandezza di questo film è necessario vederlo più volte: Scorsese dissemina Shutter Island di tantissimi indizi che, a una prima visione, sfuggono poiché siamo concentrati nel seguire la frenetica trama. Inoltre, pur avendo la sensazione che qualcosa non quadri, vediamo ogni cosa attraverso gli occhi di Teddy ed è per questo che crediamo che sia vittima del complotto dei terribili scienziati. Finché non giunge al faro, simbolo di dolorosa verità e liberazione.
Lì viene svelato che Teddy Daniels è Andrew Laeddis: il paziente 67, il più pericoloso dell’isola.
A causa delle azioni di una moglie di cui aveva ignorato la depressione e i problemi mentali e delle conseguenze, ha completamente rimosso i suoi sensi di colpa e quella realtà troppo terribile da sopportare. Per la regola del 4 – o delle doppie personalità – anagrammaticamente Andrew Laeddis non solo si trasforma in Edward Daniels (e Dolores Chanal in Rachel Solando), ma diviene totalmente un’altra persona: un mostro con il volto sfigurato. Teddy, invece, è un eroe e l’unico che comprende che dentro quell’ospedale i nazisti continuano a operare; cosa che però si rivela falsa. Forse.
E qui arriva un interessante indizio.
Sappiamo che Teddy è un veterano della seconda guerra mondiale grazie ai ricordi legati alla liberazione di Dachau, ma anche che quelle sono memorie inattendibili a causa della sua condizione. Potrebbe essersi inventato quei momenti, considerando che le gesta che compie lì sono particolarmente orribili per il personaggio che si è creato, ma si adattano perfettamente alle sue emozioni, al fatto che si considera un mostro. In più la scritta “Arbeit Macht Frei” visibile nel film non è quella di Dachau, ma di Aushwitz: una svista per cui inizialmente Scorsese fu contestato, ma invece potrebbe essere una ricostruzione sbagliata di Andrew che mostra così il suo stato di alterazione.
Molto importanti sono i due elementi dell’acqua e del fuoco in Shutter Island.
Teddy tende sempre verso il secondo, cosa che sosterrebbe una teoria secondo la quale lui sia davvero un piromane che ha incendiato la sua casa con la moglie all’interno, ma soprattutto perché, simboleggiando le sue fantasie, ci trova conforto. Esemplare è la scena in cui incontra la “vera” Rachel Solando nella grotta: non solo il fuoco lo attira, ma ce n’è così tanto che il viso della donna viene nascosto dalle fiamme, come fosse appunto un’illusione.
Dopo il fuoco viene sempre l’acqua, a rappresentare la realtà che Teddy ha cancellato. Lui ne ha paura perché incarna il suo trauma, ovvero l’annegamento dei figli per mano della moglie che, infatti, appare sempre bagnata. Senza contare che, mentre all’inizio è sulla barca, dà di stomaco, eppure il mare è piatto. Ma la scena forse più esplicita è quel bicchiere d’acqua che sparisce quando l’uomo interroga una paziente: la sua mente elimina l’elemento, che ricompare nell’inquadratura successiva. Inoltre l’acqua imprigiona Teddy nell’isola, dato che la circonda, e la pioggia diviene sempre più aggressiva man mano che la storia procede e ci addentriamo nella sua psiche, esaurendosi solo con la rivelazione del faro: questo riprende dalle teorie di Freud che paragonano il subconscio al cielo nuvoloso e la consapevolezza a quello sereno.
Anche il comportamento dei poliziotti è sospettoso. Nelle scene inziali sono sugli attenti, con gli sguardi terrorizzati, le armi pronte e uno di loro che imbraccia il fucile, sintomi della pericolosità di Teddy; ciò viene ribadito quando quest’ultimo irrompe in una riunione e i poliziotti si spaventano immediatamente.
Le stesse guardie e lo staff del manicomio illustrano, infatti, la farsa in cui è coinvolto il protagonista.
Si mettono a ridere quando uno di loro gli consiglia di non affrontare un paziente da solo prima di entrare nel padiglione C, oppure in quell’interrogatorio surreale alle infermiere. Non cercano Rachel Solando – sono seduti sulle rocce senza far niente – e, mentre Teddy pone delle domande ai ricoverati, ha una guardia alle spalle: l’unico a non essere sorvegliato è Chuck, aka il Dottor Sheehan. Il suo comportamento, infatti, non è propriamente quello di un partner, dato che sembra più sorvegliarlo che partecipare attivamente alle indagini: ad esempio, quando Teddy parla con la finta Rachel, gli mette una mano sul petto per fermarlo, anche se non aveva fatto niente, come se lo conoscesse. In più non sa estrarre la pistola dalla fondina e la donna del bicchiere, dopo che Teddy le chiede di Sheehan, si volta verso Chuck che, sentendosi elogiare, sorride.
Durante quell’interrogatorio, a un certo punto, viene inquadrata una siringa, ma il paziente è già andato via: questo perché è per Teddy, in caso diventasse violento. E poi, come fa a sapere che proprio quel malato è infastidito dal suono della matita sfregata su un foglio? Perché i ricoverati lo conoscono e sanno di dover tacere. L’uomo che saluta Teddy all’inizio, l’incontro con George Noyce al padiglione C e l’iconica signora che fa shhh con il dito lo dimostrano. Ma non ci facciamo caso perché, in teoria, sono pazzi.
Oltre al fatto che Teddy deve sempre farsi accendere la sigaretta da Chuck perché ai pazienti è vietato possedere un accendino, si rifiuta stranamente di vedere la documentazione che attesta che Laeddis è un degente del manicomio. La spiegazione è semplice: a livello inconscio, sa che quel foglio dimostra la sua vera identità. Non vuole rinunciare all’illusione, rifiutandosi di accettare prove che frantumerebbero le sue fantasie. E quel dialogo agghiacciante sulla violenza che ha con il direttore del manicomio – che gli fa capire di sapere che è un paziente – è davvero avvenuto? La sua uniforme simil-nazista, assieme a quello sfondo che sembra essere sovrapposto volutamente con la computer grafica, sollevano qualche dubbio.
L’indizio più clamoroso, però, ce lo fornisce direttamente il dottor Cawley nel momento in cui illustra la sua nuova tecnica curativa, ovvero quella di assecondare l’immaginazione dei pazienti di modo che arrivino, durante il percorso, a una presa di coscienza dei loro crimini, sperando così che guariscono o almeno non vengano lobotomizzati. Proprio quelle parole dovrebbero farci capire che il ritrovamento di Rachel è solo una distrazione, che c’è qualcosa di più grande in ballo, se non che Scorsese è bravissimo a intrappolarci nella sua rete.
Gli indizi, in un film come Shutter Island, vanno ricercati anche a livello tecnico.
Attraverso il ribaltamento del significato dei colori, vengono contraddette le nostre credenze sulla personalità e sulle azioni dei personaggi. Il bianco, solitamente simbolo di purezza e bontà, indica invece il lento deterioramento della salute mentale di Teddy. La contaminazione di questo colore viene ribadita dalle divise di infermiere e inservienti, percepiti come ostili. Un ragionamento identico vale per il giallo dell’abito di Dolores, una cromia calda e gioiosa che, però, viene sporcata dal sangue (e dall’acqua) che fuoriesce dal suo addome, suggerendo dunque il modo in cui è morta; inoltre quando compare con indosso quel vestito, succedono sempre disastri.
È la scelta di un’illuminazione cupa e un tono grigiastro pieno di contrasti che ci immerge subito nell’incubo, ancor prima di conoscere la verità. I contrasti aumentano con il proseguire della storia, con la notte che domina sul giorno e le cromie sempre più pungenti. Se durante le allucinazioni i colori sono brillanti per evidenziare l’illusione, quando il trauma riaffiora la tavolozza si riempie di un giallo e verde per niente rassicuranti: questo perché rappresentano la malattia di Teddy e la sua prigionia in una realtà che non vuole affrontare, in quel mondo dove ha perso tutto per colpa sua.
Un occhio più esperto, inoltre, potrebbe notare tante inquadrature dall’alto che danno l’idea che qualcuno stia monitorando Teddy. Le inquadrature basse e medie vengono utilizzate per convincerci – e ci riescono – che lui abbia ragione. E il montaggio confusionario, con piccoli buchi narrativi (come personaggi che cambiano posizione o azioni bruscamente interrotte), non è un errore, ma una precisa scelta stilistica adatta a un narratore inaffidabile come Teddy.
Nel finale, dopo la rivelazione del faro, tornano il sereno e delle cromie rassicuranti, come a voler dire che i tempi tristi e disperati sono ormai giunti al termine perché Teddy ha ricordato ed è guarito. E poi arriva la mazzata conclusiva con quell’amarissima frase che un Laeddis, apparentemente tornato nella sua fantasia, pronuncia in un momento di lucida follia:
“Cosa sarebbe peggio: vivere da mostro o morire da uomo per bene?”
I dubbi che sollevano queste parole sono tantissimi. Forse Andrew è guarito ma i sensi di colpa sono talmente enormi che non riesce ad accettarli, che non potrebbe vivere da mostro. Preferisce fingere di essere Teddy un’ultima volta e mostrare il fallimento della cura, per essere lobotomizzato così da dimenticare il suo passato e morire da uomo per bene. Perché la sua malsana illusione è una sicurezza per lui. Ma la sua condizione potrebbe davvero essere irrimediabile e quella una delle sue crisi mentali. Oppure, ci sono teorie che invece ritengono che Andrew/Teddy sia lucido per tutto il tempo; altre ancora che pensano a un sogno. La prima, però, sembra la spiegazione più plausibile e il cambiamento nella recitazione di DiCaprio pare confermarlo.