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La spiegazione del finale di Shutter Island

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Sono passati ormai quattordici anni dall’uscita nelle sale di uno dei maggiori capolavori di Martin Scorsese. Eppure, il segno indelebile che è stato Shutter Island (disponibile a pagamento su Prime Video) continua a infestarci come uno spettro. L’accoppiata Di Caprio-Scorsese non smentisce mai e riesce sempre a fare centro a colpo sicuro. Shutter Island è uno di quei film che, nonostante l’ennesima visione (doverosa, tra le altre cose), ci lascia sempre e innegabilmente con quella sensazione di instabilità e incertezza, quasi come avessimo il mal di mare. Thriller. Horror. Noir. Mistery. Giallo. Crime. Solo la stratificazione di molteplici generi fa girare la testa.
Il film firmato Scorsese ci porta a seguire le indagini del detective Teddy Daniels (Leonardo Di Caprio), accompagnato dal partner Chuck (Mark Ruffalo), sulla scomparsa di una paziente, Rachel Solando (Emily Mortimer), dall’Ashecliff Hospital, un manicomio criminale situato sull’isola. La vicenda, quindi, ci vorrebbe guidare (o meglio, crea l’illusione di volerlo fare) nella mente di Teddy, un uomo, come capiamo ben presto, dal misterioso, ma drammatico, passato e dal presente oscuro. E proprio su questi due la labirintica regia lavora per aumentare la nostra confusione e il nostro disorientamento. L’isola e gli eventi a cui assistiamo diventano specchio della turbata e inquieta mente di Teddy. E i confini tra realtà, sogno e psicosi si sfumano, come la nostra comprensione degli stessi.

In molti hanno provato l’ambiziosa missione di analizzare il finale di questo cult. Sebbene siamo convinti che, come con molti thriller, sia impossibile darne una spiegazione univoca (dato il senso volutamente sfuggente dello stesso), qui vogliamo provare ad aggiungere ulteriori sfumature alla grigia nuvola che è il finale di Shutter Island.

Nulla è reale su Shutter Island. Oppure tutto lo è?

Shutter Island, una scena col protagonista del film interpretato da Leonardo Dicaprio

Le indagini conducono Teddy Daniels a una nota lasciata da Rachel Solando, la paziente scomparsa, su cui vi è scritto: “La Legge dei 4. Chi è il paziente 67?”. Questo messaggio diventa un punto chiave (o una nuova ossessione) per Teddy, che inizia disperatamente a investigare. L’isola ospita solamente 66 pazienti. Chi è il misterioso paziente numero 67?

Il faro (interessante la metafora incarnata da questo luogo) porta alla luce l’amara e sconsolata verità che Teddy stava cercando di nascondere a sé stesso, chiudendola a chiave in un cassetto del suo subconscio. La nevrotica salita delle scale a chiocciola conduce il nostro protagonista dal Dottor Cawley (Ben Kingsley). Al capo medico spetta l’onere di portare a galla la verità nascosta.

Teddy Daniels è il 67° paziente di Shutter Island.

Shutter Island, una scena col protagonista del film interpretato da Leonardo Dicaprio

Ex agente federale, Andrew Laeddis (anagramma di Teddy Daniels), in preda a una crisi psicotica, ha ucciso sua moglie, Dolores Chanal. Anche questo nome è diventato un anagramma: Rachel Solando (quarta identità, e fittizia come Teddy, coinvolta della Legge citata nella nota della paziente scomparsa). L’irrecuperabile stato di Andrew lo porta a mascherare la realtà e se stesso sotto le spoglie di Teddy Daniels, una complessa illusione autogenerata perché incapace di affrontare la realtà. La sua verità. Il suo vero io. Il mostro capace di uccidere a mani fredde la donna che ama.

 “Cosa sarebbe peggio? Vivere come un mostro o morire da uomo perbene?”

Ultima conversazione tra Andrew e il Dr. Sheehan in Shutter Island

L’esperimento messo in atto dal Dottor Cawley e il Dottor Sheehan/il partner Chuck potrebbe, secondo loro, permettere ad Andrew di superare la sua psicosi. Assecondare la fantasia incarnata da Teddy diventerebbe un processo di inconsapevole autoanalisi, di confronto e accettazione dell’agghiacciante realtà di Andrew.
Se, alla rivelazione del Dottor Cawley, Andrew sembra aver portato a termine con successo l’ultimo azzardato esperimento dei medici, il giorno successivo Teddy torna, insieme a tutte le sue teorie complottiste. Tuttavia, l’ultima frase pronunciata da Andrew, enigmatica e allo stesso tempo cruciale, mette in dubbio la sua ricaduta nella fantasia.

L’ultima sequenza è un muto gioco di sguardi tra medici, guardie di sicurezza e infermieri. Tutti sanno quello che sta per succedere: Andrew è irrecuperabile e la lobotomia resta l’ultima spiaggia. Tuttavia, all’ultimo scacco della partita partecipa anche Teddy/Andrew, che si alza e cammina verso la sua inevitabile fine.
L’ambivalenza del/dei personaggio/i a cui Di Caprio presta il volto torna nuovamente nel parallelismo mostro e uomo perbene. Questa ambivalenza si propone anche in ciò che noi ci domandiamo alla fine del film: Andrew sta consapevolmente accettando la lobotomia? O quello è ancora Teddy?
La consapevolezza della verità (di essere un mostro) e l’incapacità di vivere i propri sensi di colpa portano Andrew a interpretare per un’ultima volta la parte di “Teddy”, venendo sottoposto alla lobotomia. La morte cerebrale è morte identitaria. Se uccidere il mostro, puoi essere un uomo per bene, libero dal peso del crimine. Oppure Teddy è ancora presente, nella sua totale fuga dalla realtà (rilegandolo nuovamente alla dimensione del mostruoso), e la lobotomia rappresenta una materiale fuga dal dolore e dalla consapevolezza di esso.

L’ambiguità tra psicosi e realtà si lega al parallelismo tra psicosi e sogno. Quanto di questo è reale? Quanto è frutto della mente di Andrew? 
Colpa, rimorso, consapevolezza si manifestano in quell’ultima frase, specchio del dilemma morale di Andrew/Teddy. Da un lato, vi è il confronto tra la natura mostruosa dell’uomo e l’incapacità di accettare le proprie azioni. Dall’altro, l’idea di redenzione e di sacrificio data dalla distruzione di una mente consapevole della propria mostruosità.
Shutter Island, nell’albo dei thriller psicologici e dai finali psicologicamente importanti, si pone come riflessione sui concetti di identità, colpa e moralità: è meglio affrontare le proprie azioni e vivere con le loro conseguenze, anche se ciò significa convivere con il dolore e la vergogna? O è preferibile sfuggire dalla realtà, pur sapendo che ciò comporta una sorta di morte morale o psicologica?