Tutti abbiamo vissuto quella spiacevole situazione raccontata brillantemente da Zerocalcare in Strappare lungo i bordi: chi non è mai stato ore a scorrere i film sulle piatteforme streaming e non trovare niente da vedere pur avendo a disposizione “tutto l’audiovisivo del mondo” e pensando “è possibile che son tutti film de m*rda”? Certo, la roba bella magari l’abbiamo già vista, altra siamo in ritardo e altra ancora la teniamo per il momento giusto – se arriverà. Vogliamo evitare, però, di finire nella fantascienza polacca del ‘900 in lingua originale, andare a letto frustrati con la nostra coscienza sottoforma di Armadillo che ci costringe a interrogarci su noi stessi dicendo: “Dai su, se su ottomila film non te ne va bene manco uno, forse sei te che non vai bene”. Proprio per questo nasce la seguente rubrica settimanale, in onda ogni lunedì e rivolta sia a chi la pellicola in questione non l’ha mai vista, sia a chi l’ha già visionata e vuole saperne di più: infatti, nella prima breve parte vi consigliamo un film; nella seconda invece ve lo recensiamo, analizziamo o ci concentreremo su un aspetto particolare. E questa settimana abbiamo scelto The Post.
PRIMA PARTE: Perché, dunque, vedere The Post? Ecco la risposta senza spoiler.
Disponibile su Sky e NOW (a noleggio su Amazon Prime Video e Apple Tv), The Post ci catapulta nel 1971, quando il Washington Post decise di pubblicare i rapporti segreti governativi sulla guerra in Vietnam denominati Pentagon Papers. Lo fecero nonostante la Corte federale, su volere del presidente Richard Nixon, avesse bloccato il New York Times per aver rilasciato parte di quei documenti. A prendere la coraggiosa decisione di divulgare quei contenuti e difendere così la libertà di stampa furono il direttore Ben Bradlee e Katharine Graham, prima donna della storia a guidare un quotidiano. Sarà un susseguirsi di azioni decisive, discussioni etiche, ricerca delle fonti, scelte importanti, prese di coscienze e corse alle macchine da scrivere, per svelare una verità nascosta da più di trent’anni. Perché, in fondo:
“L’unico modo per difendere il diritto a pubblicare è pubblicare”
È Steven Spielberg a creare un thriller politico avvincente, efficace, senza sbavature e necessariamente chiaro in ogni cosa. Unita all’ottima sceneggiatura di Liz Hannah e alla magnifica fotografia di Janusz Kaminski, The Post appare un film classico, con temi e spunti non particolarmente originali, il perfetto prequel di Tutti gli uomini del presidente; eppure, pur rappresentando una vicenda degli anni 70, riesce a essere tremendamente attuale, sia nel 2017 quando uscì che oggi, a più di metà 2023. Perché punta i riflettori sul diritto fondamentale della libertà di stampa (che è facilmente minacciabile), allargandosi poi alla lotta al sistema e alla parità di genere. Ecco perché diviene anche un racconto umano, di rapporti, soprattutto tra i due protagonisti interpretati magnificamente da Tom Hanks (Ben) e Meryl Streep (Katharine).
Scattando un’istantanea affascinante quanto malinconica di quell’epoca, Spielberg abbandona i suoi alieni e le sue avventure fanciullesche per regalarci una storia potente, drammatica, vera, spaventosamente attuale. The Post è un film assolutamente da vedere su Sky e NOW e, una volta fatto, vi invitiamo a leggere la seconda parte di questo pezzo, in cui analizziamo i temi di questo fantastico gioiellino.
SECONDA PARTE: L’analisi (con spoiler) di The Post
L’informazione è uno dei capisaldi della nostra società. È attraverso di lei che conosciamo ciò con cui difficilmente possiamo entrare in contatto diretto e che costruiamo la nostra concezione del mondo. Ed è in base a essa che, poi, adeguiamo e modifichiamo comportamenti e pensieri, i quali si sa, possono essere influenzati dalla propaganda politica attuata proprio per mezzo della stampa, che prova a piegare quest’ultima per i suoi scopi. Ma, come ha emesso la Corte Suprema degli Stati Uniti proprio in virtù della sentenza rappresentata in The Post:
“La stampa dev’essere al servizio dei governanti, non dei governatori. Solo una stampa libera e senza costrizioni può rilevare gli inganni del Governo”.
Steven Spielberg conosce bene il valore di una stampa libera. Non potrebbe essere diversamente, data la genesi di questo film su Sky e NOW. Infatti, dopo l’elezione di Donald Trump a presidente, il regista ha messo in pausa i suoi progetti (la post-produzione di Ready Player One e le riprese de Il Rapimento di Edgardo Mortara), per girare The Post in circa 45 giorni e produrlo in nemmeno 10 mesi. Questo perché credeva che, se l’avesse realizzato in un secondo momento, non avrebbe avuto lo stesso impatto. Il che, purtroppo, non è vero, dato che i tentativi del potere di indirizzare la stampa a proprio vantaggio ci saranno sempre. Ed è per lo stesso motivo che i Pentagon Papers sono uno dei simboli della lotta al ricevere un’informazione votata al bene dei cittadini.
Infatti, è proprio da quel periodo che cambiano i rapporti tra media e potere. Giornalisti e politici sono chiamati a una scelta: cosa essere l’uno per l’altro? Ben dirà a Kay che ha sempre considerato Jack Kennedy un amico e mai una fonte. Però, siamo arrivati al punto in cui il giornalismo non può più essere questo per il potere e deve tornare a sorvegliarlo, a esserne il cane da guardia. In fondo, è la ragione per cui è nato. Non per essere il portavoce dei più forti, ma per far emergere quella verità che tentano di nascondere pur di mantenere la loro poltrona privilegiata. Ecco perché Spielberg insiste nel mostrarci la difficoltà dei giornalisti nell’ordinare tutti i documenti dei Pentagon Papers: dal farne una copia al disporre tutti i fogli in un pavimento di una camera d’hotel o di un salotto, per poi capirne la sequenza e redazionarli. In questo modo, con un lavoro tanto attento quanto faticoso e in cui hanno rischiato tutto, i giornalisti del Post non solo hanno fatto emergere le bugie e le ipocrisie di ben quattro amministrazioni americane (soprattutto il fatto che già sapevano, prima di mandare a morire milioni di giovani, del fallimento della guerra in Vietnam), ma sono riusciti a creare qualcosa di tramandabile e a costruire un’eredità duratura. Impedendo così alla Storia stessa di sparire, confondersi in un mare di parole scritte, registrate, ma mai stampate.
Certo, bisogna comunque partire dal presupposto, e Spielberg lo spiega brillantemente nel film su Sky e NOW, che la stampa non è oggettiva. Non può. Essa, infatti, commenta un fatto nel momento in cui accade e, dunque, non c’è quel distacco critico, temporale o emotivo che permette di giudicare senza coinvolgimento. È una presa di coscienza onesta, che sottolinea ancor di più l’importantissimo ruolo della stampa all’interno di una democrazia.
Ed è anche una chiara dichiarazione di Spielberg.
Nemmeno The Post vuole essere oggettivo, ma si presenta schierato in una chiara e netta posizione politica che non molla per tutta la sua durata. Questo è ciò che permette a The Post di fare il salto di qualità. Il presidente e il decennio sono diversi, eppure il regista si serve della sua bravura e di quella di Streep e Hanks per rivolgerla verso quello neoeletto nel 2016. Riesce a usare la retorica, a essere didattico e a tenerci incollati allo schermo senza risultare mai pedante o pesante. Così, celebra anche la pluralità di voci di cui si fa portatrice proprio la stampa; pluralità che si traduce con ascolto e condivisione di ogni tappa del lavoro. Ispirandosi probabilmente a Park Row di Samuel Fuller, riprende da esso i piani sequenza che rendono l’idea della trasparenza del giornalismo; l’ampiezza dei movimenti e gli spazi pieni di persone per trasmettere i valori della partecipazione, della libera espressione e del costruire la storia assieme.
E lancia anche una riflessione su un giornalismo d’altri tempi, quasi con nostalgia di fronte al modo in cui oggi è diventato complesso e risulta in crisi, soprattutto con la proliferazione di fake news e, in generale, del digitale. Insiste molto sull’inchiostro, sulle rotative, sulle tempistiche della carta, sull’importanza della copia fisica, sul senso di etica e deontologia giornalistica. È un’esaltazione dell’analogico, in ogni sua forma e non solo in quella giornalistica, esemplificata da quel palazzo che trema mentre le rotative lavorano per produrre il numero più importante del Washington Post. Un’immagine che si trasla immediatamente dalla carta al regno materiale, contrapposto a quello virtuale. Perché Spielberg racconta dei giornali cartacei ma si riferisce anche alla musica in vinile, al cinema in pellicola, alla fotografia dei rullini o al ticchettio delle macchine da scrivere. Era un mondo più lento, dove le decisioni sembravano più pesanti e c’era bisogno della discussione con gli altri per prenderle; ai suoi occhi era pure più serio e migliore. Si può dibattere su ciò, ma resta il fatto che non ci fu momento più adatto per portarci a riflettere su questo tema al cinema, trattato infatti meno del previsto.
Ma Spielberg rende The Post rilevante anche per un altro motivo; lo stesso che l’ha spinto ad affidare la parte da protagonista all’attrice più importante del mondo, ovvero Meryl Streep: si tratta del ruolo delle donne nella società.
Negli anni Settanta – ma, purtroppo, spesso pure oggi – il potere era in mano agli uomini, con le posizioni dirigenziali quasi tutte occupate da loro, così come i discorsi su affari e politica. Kay, infatti, si ritrovò a capo del Washington Post (il giornale del padre) per caso, dopo che suo marito Phil si suicidò. Invece di continuare la sua vita da ricca signora divisa tra un ricevimento e l’altro e sebbene non avesse mai lavorato in vita sua, a 46 anni decise di accettare questa carica. Inizialmente venne considerata indecisa, debole in quanto donna e fu sovrastata dagli uomini del suo consiglio d’amministrazione. Sarà per questo che Arthur Parsons prova a dissuaderla nel pubblicare i Pentagon Papers. Fosse stata un uomo, probabilmente ne avrebbe rispettato la decisione, mettendosi l’anima in pace. Eppure, Kay riesce pian piano a far emergere la sua grinta e la sua autorevolezza di fronte a uomini che non la ritenevano all’altezza. Dimostra di saper gestire la situazione meglio di loro e non perché voglia il potere o sia una fredda calcolatrice, ma perché dirige il giornale con il cuore, la testa e l’anima.
Non persegue solo il profitto, ma si preoccupa sinceramente del quotidiano, dei dipendenti e rischia il tutto per tutto, sostenuta da un imperterrito Ben, pur di difenderne i valori e di non asservirsi al potere politico. Tra l’antico dilemma sul pubblicare o meno un documento che potrebbe mettere a rischio vite o in pericolo la sicurezza nazionale, sceglie sempre e comunque la verità, il confronto con il pubblico, la sua etica. Ecco perché una donna inizialmente comune come Katherine Graham si eleva a simbolo dell’emancipazione femminile, diventando la prima donna a essere menzionata nel Fortune 500, ovvero la lista annuale delle aziende americane di maggior successo.
E la camminata silenziosa di Kay nel corteo in cui, ad accoglierla, ci sono donne e ragazze, che le danno forza solo con lo sguardo, è un’immagine potente del film su Sky e NOW che resta impressa più di mille parole. Ecco perché The Post è un film attivista, perché lavora intesamente per cambiare la nostra concezione sulle donne, sul giornalismo e sulla società. Ergendosi a grandissima opera; d’altronde non può essere diversamente se scatena in noi riflessioni così profonde quanto necessarie.