Sono tantissimi i film indimenticabili nella storia del cinema; quelli che non invecchiano col passare del tempo e che non ci stancheremmo mai di vedere. Hanno una padronanza tecnica tale da spiazzarci, dando vita a personaggi iconici, trame avvincenti e messaggi profondissimi. Così, evocano in noi emozioni pure, si fondono con i nostri ricordi, ci fanno provare esperienze che ci cambiano da dentro. Dimostrando che sì, i film contano. E, se molto è legato al gusto soggettivo, ci sono delle pietre miliari che mettono d’accordo tutti. Allora, ogni mese dedicheremo una recensione approfondita a un cult intramontabile, scolpito nella memoria collettiva e così significativo da essere ancora oggi attuale. E la scelta, stavolta, è caduta sull’indimenticabile The Truman Show.
Sono passati ben venticinque anni dalla premiere di The Truman Show, eppure è una di quelle pellicole talmente in anticipo sui tempi che sembra essere uscita oggi, per come tratta temi attuali come la tecnologia e il suo impatto nelle nostre vite.
Andrew Niccol – già regista di un film fantascientifico con al centro il tema dell’identità, ovvero Gattaca – realizzò la sceneggiatura già nel 1991, dipingendo però una storia molto più cupa e distopica, soprattutto nella resa di un’umanità priva di empatia. Fu lo stesso Niccol, poi, a consigliare alla Paramount Peter Weir come regista, dopo che erano spuntati fuori i nomi di Brian De Palma, Terry Gilliam e Steven Spielberg. Weir modificò la sceneggiatura, intuendo che, per rendere davvero efficace il film, doveva rifarsi alle vecchie sit-com e all’estetica da spot pubblicitario, nascondendo la profondità drammatica dietro un’amara ironia di facciata. In questo modo, voleva rendere l’idea di una realtà idealizzata, falsamente vera, costruita ad hoc per il pubblico e plastificata – e l’incredibile scenografia rende perfettamente tutte queste caratteristiche; quella realtà che, solitamente, ritroviamo nei reality show. Certo, nel 1998 erano ancora agli inizi, ma Weir e Niccol ne avevano già comprese potenzialità e rischi, successi e cadute, e il loro sfondamento sempre più evidente nell’area delle soap opera.
Partendo da qui, i due realizzano un’acuta metafora sul potere dei media di influenzarci e di manipolarci, spingendoci a comprare un dato vestito, ad ascoltare un certo tipo di musica, a praticare proprio quello sport e, soprattutto, orientando le nostre opinioni. Una cosa che, con l’avvento dei social media, si è ancor di più acuita, in particolare con il fenomeno degli influencer e col fatto che siamo costantemente sottoposti a propaganda e al desiderio di mostrare la nostra vita in cambio di una finestra su quella di altre persone. Allo stesso modo, l’esistenza di Truman è stata manipolata, ad esempio con la creazione della fobia dell’acqua, in modo da non farlo mai andare via da Seahaven, cittadina orwellinana idilliaca ma senza libertà. Lui, completamente inconsapevole di essere costantemente visto e controllato, in un pieno ribaltamento delle logiche dei reality (i concorrenti, infatti, sanno perfettamente qual è il loro ruolo, che spesso cercano e vogliono) è prigioniero tanto quanto noi di un mondo alterato senza il nostro permesso. Immedesimarsi in Truman vuole dire comprendere la nostra natura e decidere se rimanere nella nostra prigione dorata o salpare verso la libertà.
A ribadire la falsità del mondo di The Truman Show contribuiscono i nomi: la moglie si chiama Meryl, come l’attrice Streep, e il suo miglior amico Marlon, come l’attore Brando, considerati due dei più grandi interpreti della storia del cinema; il regista che ha creato il tutto è Christof (togliendo l’ultima lettera, si comprende a chi si allude); ogni strada o piazza reca il nome di un attore; la barca con cui Truman fugge è denominata come una delle caravelle con cui Colombo scoprì l’America, ovvero Santa Maria; Seahaven può essere reso con “porto sicuro” e ha delle assonanza con la parola inglese che sta per paradiso, heaven, dando l’idea di un luogo ameno e immacolato; la targa della macchina del protagonista, infatti, reca la scritta “Seahaven – il posto migliore in cui vivere”; infine, la traduzione di Truman in italiano è “Uomo vero”, sottolineando che lui è l’unico che rimane sempre sé stesso per tutta la durata del film. Lui che, più di molte altre icone cinematografiche come Neo, rappresenta la ribellione giovanile di fine anni ’90 e inizio del nuovo secolo, che lottava per potersi autodeterminare ed esprimersi oltre le maglie precostituite imposte dalla società; metafora di quei Millennial che chiedevano più diritti e libertà, spesso soffocati nel sangue come nelle proteste di Toronto e di Genova.
L’attore giusto era fondamentale per rendere questo e molto di più in The Truman Show.
Jim Carrey ha quella capacità unica di unire la commedia al dramma (come ha dimostrato successivamente nella struggente Kidding) e la sua espressività così marcata, quasi di gomma, è perfetta per interpretare un uomo che, venuto a conoscenza della sua reale condizione, inizia a mostrare qualche frattura nella sua psiche. Inutile dire che si sarebbe ampiamente meritato l’Oscar, se non che l’Academy decise di ignorare ingiustamente la sua performance, non nominandolo nemmeno; un affronto che tutt’oggi resta imperdonabile, così come la mancata nomina a miglior film di The Truman Show. Almeno il grandissimo Ed Harris la sua candidatura l’ha avuta. Il suo Christof è un Dio distopico da Antico Testamento; un burattinaio dittatore che nasconde il suo delirio d’onnipotenza dietro quella falsa umiltà e semplicità, anticipando da un lato la moda dell’imprenditore-magnate che si trasforma in un guru moderno, le cui gesta più assurde sono giustificate dal culto della personalità. Lui è un genio e, come tale, è giustificato, perché emblema della creazione divina. Parla a Truman, l’uomo piccolo e insignificante sulla Terra, manifestandosi come una voce divina, come luce dall’alto e chiamandosi proprio “il Creatore“. Nel loro dialogo emergono la sua abilità di persuasione, ma anche la volontà di Truman di abbracciare una vita vera, la sua presa di coscienza che lo porta a uscire dall’Eden di Christof e a reclamare il libero arbitrio.
Evidente, dunque, la metafora biblica, che già emerge nei primi minuti di The Truman Show con le parole di Christof: “La mia vita è il Truman Show. Una vita quasi sacra direi”. Il frutto proibito, stavolta, è la conoscenza e, una volta assaggiata, Truman non può più tornare indietro. A differenza di Adamo ed Eva, lui sceglie volontariamente di lasciare Seahaven, nonostante la dissuasione del suo Dio con affermazione del tipo: “Ascoltami Truman, là fuori non troverai più verità di quanta non ne esista nel mondo che ho creato per te”. Ma ormai Christof non può più nulla e deve lasciare questo moderno Ulisse al suo destino.
Quello di Truman è solo uno dei livelli di lettura dell’opera di Weir. Ce ne sono altri tre: quello degli attori che recitano una parte; quello del pubblico che guarda il film, ovvero tutti noi; quello del pubblico dentro alla pellicola, che segue appassionatamente le vicende del protagonista, non perdendosi nemmeno un minuto, che si commuove, ride e piange con lui e che tifa per la sua fuga da Seahaven. Perché, in fondo, la storia di Truman non è diversa da quella di una qualsiasi persona comune, di tutti noi. E gli spettatori scommettono su di lui, comprano il suo merchandising, finché le sue imprese non sono finite. A quel punto, non resta che cambiare canale e cercare la nuova tendenza, come sintetizzano le parole della coppia di guardie nel finale: ‘…cosa propone la guida TV ora?’. Ecco che, nella nostra società, anche un qualcosa di straordinario come la fuga di Truman viene velocemente dimenticata, per fare spazio ad altro nella grande macchina dei media. In fondo, lo spettacolo deve sempre continuare, come cantavano i Queen.
Ecco che, allora, The Truman Show è una denuncia al nostro voyeurismo, a quella nostra mania di spiare la vita altrui cominciata con il Grande Fratello di Orwell, continuata con quei reality di cui viene fatta la parodia in questa satira fantascientifica e drammatica (e incatalogabile in un solo genere), ed espressa a oggi con i social media. La stessa che porta il pubblico della pellicola a guardare lo show senza preoccuparsi minimamente di come un comune ragazzo sia stato trasformato in un fenomeno da baraccone a sua insaputa; un tema, se vogliamo, ripreso più e più volte e in forma diversa e decisamente più scioccante in Black Mirror. Ormai, il concetto di fruizione è cambiato, il quotidiano è diventato il nuovo palcoscenico; quello però ricreato artificialmente, modificata con ogni mezzo per un solo fine: intrattenere. Costi quel che costi.
Ponendo questioni filosofiche che rimandano a Kant e Nietzsche e con un sottotesto sul controllo dei Governi teorizzato da Gramsci, Philip K. Dick e Heilein (oltre che riprendere importanti e delicati temi dalla serie Ai confini della realtà), il film indaga profondamente l’essere umano, ne è un vero e proprio trattato antropologico, mostrando appunto il nostro voyerismo, l’ossessione della fama che porta gli attori a sacrificare una vita vera per una falsa, la bramosia del potere e i deliri di onnipotenza, ma anche il nostro desiderio di verità, il rapportarsi con gli altri sinceramente o il superamento delle nostre fobie (come Truman che sfida l’oceano per uscire da Seahaven). Soprattutto, si interroga su quanto effettivamente siamo liberi in una società controllata dai media come la nostra. Quella in cui preferiamo rifugiarci in un video su Tik Tok o in una reaction su Instagram, accettando la bugia di quella realtà e non facendo niente per cambiarla.
E allora, celebrare il potente, profetico, profondo, riflessivo e meraviglioso The Truman Show vuol dire guardarsi allo specchio, uscire da quella falsa cupola di vetro per raggiungere la nostra libera Itaca, fare un inchino e salutare il nostro padre/padrone con un sorriso, con queste parole:
“Caso mai non vi rivedessi, buon pomeriggio, buonasera e buonanotte!“