Può un film girato interamente all’interno di 4 mura, con soli 4 attori e poco più e una colonna sonora ridotta all’osso vincere un Oscar? No, DEVE. The Whale è finalmente arrivato nelle sale, forse tra i film più attesi di questo anno, e ha riportato sul grande schermo quel talento quasi dimenticato di Brendan Fraser.
In due ore di film succede di tutto, eppure la cinepresa non esce mai dalle mura di casa, se non per lasciarci scorgere un frammento di luce quasi fastidiosa, perché quando ci si abitua al buio, uscire alla luce del giorno è quasi impossibile.
Con tre candidature agli Academy Awards (contesi con The Fabelsman e Elvis), una candidatura ai Golden Globes e il premio appena vinto come Miglior attore a Brendan Fraser ai Screen Actors Guild Award, ecco la nostra recensione.
La balena
The Whale si apre in un piccolo appartamento, lo stesso che farà da contorno all’intera storia e dal quale speriamo in fondo di non allontanarci mai per non perderci ciò che avviene al suo interno. Già dal primo istante facciamo la conoscenza di Charlie (un irriconoscibile Brendan Fraser), un uomo gravemente obeso che tiene lezioni online con la web cam rigorosamente spenta.
La gravità della sua condizione è evidente fin da subito, Charlie non è più in grado di svolgere nessuna attività quotidiana, e anche la soddisfazione di un desiderio sessuale si trasforma in un’impresa. Ormai convinto di non riuscire più a riempire d’aria i suoi polmoni, legge le ultime righe di un tema che sembrano dargli conforto.
The Whale è essenziale ma intenso
Ci si accorge subito dell’essenzialità scenica di The Whale, asciutta, priva quasi di colonna sonora, con un cast che si conta letteralmente sulle dita di una mano e una regia apparentemente sintetica ma studiata nelle proporzioni visive.
All’apparenza può sembrare che una costruzione filmica del genere non abbia necessitato di chissà quale preparazione, eppure il regista Darren Aronofsky (Il Cigno Nero, Madre!) ha impiegato 10 anni a scegliere il cast. Quasi l’arco temporale che ha tenuto il promettente Brendan Fraser lontano dal grande schermo.
10 lunghi anni convergono in un film che ha richiesto 6 ore di trucco per la preparazione del protagonista e due ore di programmazione per gli spettatori più coraggiosi, perché ve lo prometto, starete male.
Nessun lieto fine per Charlie
Charlie è un personaggio incredibilmente interessante, profondamente innamorato del pensiero positivo ma incapace di vederlo per sé stesso, abbandonato ad una morte che fin dall’inizio ci viene annunciata come definitiva. Lo dice la sua infermiera Liz dal primo istante e lo sa bene Charlie, forse gli unici a non volerci credere siamo noi.
Charlie non vuole essere salvato ma intende salvare gli altri e in particolare la figlia Ellie (una bravissima Sadie Sink), rancorosa nei suoi confronti per averla abbandonata per un uomo anni prima. Di persone odiose e bisognose di attenzioni come la figlia del professore ne esistono davvero poche e ad un certo punto ci convinciamo anche noi che sia realmente cattiva. La visione di Charlie però è diversa e fino alla fine intende in ogni modo dimostrarci che ci sbagliamo, tutti.
Il cinema di Darren Aronofsky
Aronofsky è un fuori classe, capace di dirigere nel corso degli anni alcuni dei più intensi film visti sul grande schermo. Allegorie, ossessioni e sconfitta sono spesso stati i temi preponderanti dei suoi film, ma ciò che li racchiude in un unico grande punto esclamativo è la perdita di controllo. Il corpo è declinato in ogni film in modi diversi ma pur sempre stremato: dal poco cibo e l’eccessivo allenamento ne Il Cigno nero, nella perdita di controllo con il cibo in The Whale.
Il claustrofobico formato in 4:3 scelto da Aronofsky non poteva essere più azzeccato. Per tutta la durata del film ci sentiamo come se non dovessimo assistere a quanto succede, colti da un‘irresistibile voglia di spiare, affetti dall’esigenza di soddisfare la juissance in una forma quasi voyeuristica.
Il filo conduttore di tutto il film resta l’opera di Herman Melville, Moby Dick, ripercorsa con parole sincere dal tema di Ellie. Il regista sceglie inoltre una colonna sonora quasi assente, decidendo di farcela sentire solo nei momenti in cui l’uomo si alza in piedi, ergendosi in tutta la sua stazza, enorme, declinato quasi alla mostruosità. “Mostruosità” enfatizzata nel modo in cui viene mostrato feticizzato ogni centimetro di pelle o amplificando il rumore che fa quando sta per soffocare con il pollo o quando mangia.
Il peso della vita di Charlie in The Whale
Che l’obiettivo di Aronofsky sia il pathos lo avevamo capito fin da subito, ma che questo film ci avrebbe suscitato emozioni tanto forti non era cosa scontata.
Nel corpo ormai deforme di Charlie convivono tanti fardelli diversi: omosessualità, stigma del tradimento, peso, senso di colpa. Pensieri alimentati dall’unica cosa in grado di mettere a tacere almeno temporaneamente i pensieri dell’uomo, il cibo. Il tutto converge nella definizione che egli si è dato, deciso a volerla sentire quasi per darsi finalmente pace, dalla bocca degli altri. Messo alle strette, toccherà proprio Thomas etichettare Charlie come “disgustoso”.
Vittima e carnefice di sé stesso, Charlie non riesce a reagire all’incombere della fine, convinto in fondo di meritarla. The Whale, che vuol letteralmente dire “la balena”, è la storia di un uomo che pur essendo letteralmente gigante è tanto devastato da sembrare piccolo.
Ok Brendan, ora riprenditi la scena!
Per quanto riguarda la performance di Brendan Fraser c’è poco da dire. Bastano i pochi secondi iniziali per renderci conto che questo sarà in assoluto il suo miglior film. Fraser riesce a trasmettere una sofferenza vera, probabilmente “aiutato” dal fatto che l’ha realmente vissuta sulla sua pelle, quella sotto i 130 kg di protesi.
Guardare il film consapevoli di ciò che l’attore ha realmente dovuto vivere porta a una commozione anticipata, perché i suoi occhi non recitano, ma soffrono realmente. La drammaticità di Charlie emerge in maniera quasi epidermica, come se potessimo sentirla tutta, odiarla, assorbirla.
Per quanto siano bravi i personaggi secondari, da Sadie Sink a Hong Chau e Ty Sympikins, altro non sono che satelliti, quasi oscurati dalla presenza ingombrante di Fraser, che reclama il suo momento, la sua rivincita. Per tutto il film i suoi occhi parlano per lui, spalancati e sofferenti, come i nostri.
Il silenzio assordante del finale di The Whale
Conoscendo Aronofsky mi ero preparata un finale scioccante, ma quello che è successo è stato molto peggio.
L’autodistruzione di Charlie giunge al termine dopo due ore di film, e il filo conduttore di Moby Dick è la spiegazione dell’epilogo. Ellie è il capitano Ahab, ossessionata dalla Balena Bianca che l’aveva menomata e decisa a liberarsene, metafora di quanto realmente accaduto alla bambina di 8 anni in passato, significato chiaro a Charlie che con malinconia ci ha abituato a quelle parole fin da subito. All’uomo spetta invece il ruolo di Moby Dick, una balena incapace di comprende i motivi di tanto odio da parte del capitano.
Ellie legge il tema al padre, che nel frattempo ha trovato la forza di alzarsi e camminare verso di lei e verso la luce, accompagnato dalle parole del tema che non gli consentiranno di sentire l’ultima parola “Questo libro mi ha fatto pensare alla mia vita e poi mi ha fatto essere felice per mio…” (padre).
Il film si chiude nel silenzio più assordante che io abbia mai sentito, scandito da qualche singhiozzo in sala e dalla consapevolezza di una riflessione che la notte non mi avrebbe lasciata dormire.