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7 film thriller psicologici che mi hanno segnato nel profondo

thriller psicologici
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Sfogliando le pagine del grande catalogo dei thriller troviamo diversi sottogeneri: d’azione, legale, politico, religioso. Persino ecologico. E naturalmente i thriller psicologici. Proprio perché il thriller è un genere così vasto occorrerebbe capire quali siano le sue caratteristiche.
Fidandoci dell’autorevolezza della Treccani riportiamo: “narrazione o spettacolo (teatrale, cinematografico, televisivo) che sviluppa un intreccio poliziesco o comunque fortemente emotivo, avvalendosi dei procedimenti tipici della suspense così da produrre, nei lettori o spettatori, tensione, brivido o addirittura terrore“. Chiaro, no?

Più o meno. In tutta sincerità quell’intreccio poliziesco potrebbe essere fuorviante. Perché certamente molti di noi sono in grado di citare il titolo di un thriller che non abbia una trama investigativa. Quello su cui siamo sicuramente tutti d’accordo è la tensione che sentiamo dentro quando guardiamo un thriller ben fatto. Un’ansia interiore che aumenta e diminuisce a seconda della trama la quale culmina in un picco risolutivo della storia. Colpi di scena, emozioni forti, toni cupi e minacciosi. L’impressione che la catastrofe sia sempre dietro l’angolo. Tutti elementi che rendono bello un thriller. Come dice James Patterson, scrittore da 400 milioni di copie in tutto il mondo e considerato uno dei massimo esperti di thriller: “se non emoziona non sta facendo il suo lavoro“.

I thriller psicologici sono un genere di film che suscita una forte apprensione. Hanno la peculiarità di concentrarsi soprattutto sulla psicologia dei personaggi i quali, sovente, sono affetti da disturbi mentali. Queste problematiche, che possono variare di gravità, portano i protagonisti ad avere una visione distorta della realtà che ne compromette la relazione con il mondo esteriore. Nei thriller psicologici vengono enfatizzati i pensieri, le percezioni, le ansie e le paure creando molto spesso dilemmi morali e i conflitti interiori che costringono i protagonisti a scelte quasi sempre opposte alla loro etica.

I thriller psicologici sono un genere che mi appassiona molto. Spesso mi obbligano a rifettere e a immedesimarmi nei panni del protagonista chiedendomi come mi sarei comportato in certi frangenti. Altre volte, invece, rivivo situazioni personali non ancora risolte. Altre ancora ci trovo idee e soluzioni a problemi di lavoro.
Ammetto che spesso mi inquietano e non nascondo che certi argomenti mi fanno persino paura. Così rimando la visione a momenti più consoni e sovente sono obbligato a riguardare il film per capirci qualcosa.

Tra tutti i thriller psicologici che ho visto ne ho scelti sette che mi hanno particolarmente segnato.
E a voi? Piace il genere? Quali tra questi sette avete visto? Quali avreste scelto in una vostra ipotetica lista? Fatemelo sapere qui sotto.

1) Shutter Island

Thriller psicologici

Il primo film di questo elenco di thriller psicologici è uscito nel 2010. Il suo trailer era talmente inquietante che ho rimandato la sua visione in là nel tempo guardandolo diversi anni dopo.
Tratto da un romanzo di Dennis Lehane e scritto da Laeta Kalogridis il film è la quarta collaborazione tra Martin Scorsese e Leonardo DiCaprio ed è l’unico a non aver avuto alcuna nomination agli Oscar.

Anni Cinquanta. Manicomio criminale. Isola sperduta. Ombre e pioggia. Quali altri argomenti potrebbero venir usati per rendere inquietante un film? Nessuno, probabilmente. Gli ingredienti ci sono tutti. E sono abbastanza ben dosati e ben miscelati per dare forma e sostanza a un’opera che sfiora diversi generi.
La storia e il colpo di scena finale, che a detta di molti esperti è piuttosto telefonato ma che è riuscito a sorprendermi, sono una intricata e, apparentemente, sconclusionata concatenazione di visioni. In Shutter Island c’è una continua mescolanza di realtà e finzione, con dettagli anche piuttosto marcati, atta a dare allo spettatore un senso di disequilibrio molto forte. La continua sensazione di venire sballottati al di qua e al di là del confine tra la sanità e l’insanità mentale è disturbante e certi rimandi come il cielo oscuro e l’incrementarsi della pioggia sono simbolismi forti e, per certi versi, opprimenti.

Cosa sarebbe peggio? Vivere da mostro o morire da uomo per bene?” è l’interrogativo che Edward, a fine film, si pone. La domanda, pronunciata mentre si allontana tra i raggi di sole che fanno capolino verso un destino segnato, innesca una riflessione non semplice che va oltre il film e riesce a toccare la responsabilità delle nostre azioni. Un interrogativo non da poco.

2) The Sixth Sense – Il sesto senso

Vedo la gente morta” in lingua originale “I see dead people” è probabilmente una delle battute cinematografiche più conosciute al mondo. Un po’ come “Domani è un altro giorno“. Una di quelle battute che, una volta pronunciate, identificano immediatamente i film e il personaggio che la pronuncia.
The Sixth Sense non poteva non rientrare tra i thriller psicologici che mi hanno segnato. Il film scritto e diretto da M. Night Shyamalan e interpretato da Bruce Willis e Haley Joel Osment è uno di quei film che hanno lasciato una impronta indelebile nella storia del cinema perché sorprendente non solo per il finale ma per tutta la costruzione precedente.

Nel film il pathos creato magistralmente dal regista è così forte da rendere credibili le cose più incredibili. Il Sesto Senso apre le porte a forti esperienze spirituali perché tocca argomenti che, al di là del coté fantastico, molto profondi. L’incompiutezza della vita e la categoricità morte, la riconciliazione con le ombre e la necessità di chiudere il cerchio sono tutti elementi che ben si recepiscono. Ma nel film non è tutto negativo e l’esperienza e la comprensione aiutano a superare e ampliare i propri orizzonti. In questo caso, poi, alcune scene sono davvero commoventi e portano la riflessione a una profondità interiore davvero notevole.

C’è anche il tasto della fragilità umana. Bruce Willis, in questo, è straordinario. Il suo personaggio ha perso sicurezza e risulta quasi effimero. Come lo sono i segnali che preannunciano l’arrivo di una sequenza inquietante: quasi impalbabili. Cerca di recuperare ma si ritrova a inseguire e a rimediare.
Il Sesto Senso è così: un ossimoro nel quale è possibile trovare una sorta di filosofia zen che non necessariamente è capace di dare sollievo a un argomento spinoso come la morte.

3) Gone Girl – L’amore bugiardo

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La regia dell’adattamento del libro di Gillian Flynn, che ne ha curato anche la sceneggiatura, è stata affidata a David Fincher, un regista che potremmo definire specializzato nei thriller psicologici avendo diretto Seven, Fight Club, The Game, Panic Room, The Social Network e altri.

Gone Girl racconta la storia di una coppia perfetta che alla fine scoppia, come spesso accade quando l’apparenza ricorda le pubblicità del Mulino Bianco. Ben Affleck torna a casa la sera del suo quinto anniversario di matrimonio e scopre che la moglie, Rosamund Pike, è sparita. La polizia indaga e si convince attraverso una serie di prove che la donna è stata assassinata e che l’omicida è il marito.

Al di là della storia quello che colpisce del film è il contorno fatto da una stampa pronta a condannare e un’opinione pubblica influenzabile capace di cambiare convinzione in tempo zero. La notizia diventa vera e vincente quando è gridata più forte e più aggressivamente.

Il finale lascia poi un senso di incompiutezza. Quando i ruoli si ribaltano e i segreti diventano più pesanti da sostenere, l’apparenza torna a farla da padrone. Come una mano di bianco su una parete per dare un finto senso di pulizia.

4) Black Swan – Il cigno nero

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Pur preferendo Lo Schiaccianoci per via della sua atmosfera natalizia quando ho l’occasione di poter vedere Il Lago dei Cigni non mi tiro certamente indietro. Il capolavoro del compositore russo Ciajkovskij (1840-1893), scritto tra il 1875 e il 1876, racconta una storia d’amore intrisa di magia e tragedia accompagnata da una musica spettacolare. Insomma, un vero capolavoro.
Così, quando Black Swan uscì nelle sale cinematografiche, nel 2011, non potei fare a meno di andare a vederlo.
Convinto di andare a vedere un film sul balletto uscii dalla sala completamente frastornato, travolto da una serie di emozioni piuttosto indefinite che sfociavano in un senso di inquietudine decisamente opprimente.

Black Swan è un thriller psicologico scritto da Mark Heyman e diretto da Darren Aronofsky, già regista dell’intenso The Wrestler con Mickey Rourke. La storia utilizza come sfondo il balletto russo e sviluppa la rivalità all’interno di corpo di ballo tra Nina (Natalie Portman) e Lily (Mila Kunis). A fomentare e supervisionare questa rivalità c’è il sadico direttore artistico Leroy, interpretato da Vincent Kassel.

Nina è una ballerina con un talento straordinario ma emotivamente fragile. È in perenne conflitto con se stessa tra il desiderio di brillare e un’autostima sempre a terra anche a causa di una madre opprimente che la tratta come una bambina e cerca di sminuirla in continuazione. Quando ottiene il suo primo ruolo importante nel Lago dei Cigni comincia un lento e costante distaccamento dalla realtà a causa delle forti pressioni che la circondano.
L’interpretazione della Portman è così straordinaria che il ruolo le fece vincere, tra gli altri premi, un Oscar, un Golden Globe e un BAFTA come migliore attrice protagonista.
Il suo personaggio, Nina, trasmette un senso di inquietudine crescente, che va di pari passo con la sua dissociazione dalla realtà. Le immagini delle prove rendono perfettamente le difficoltà di un talento che risulta bloccato da qualcosa che ha dentro e la sofferenza e la frustrazione causata da questo blocco a un certo punto diventa tangibile.

Black Swan è un film che affronta un argomento spesso utilizzata nei thriller psicologici: quello del doppio e della sostituzione. Una tematica che, inserita in un mondo competitivo come la danza classica, è capace di scuotere forti e contrastanti sentimenti. Nina vive con la perenne paura di non essere all’altezza e, al tempo stesso, con un senso di sconfitta imminente, entrambi appollaiati sulle spalle. La sua fragilità e la sua angoscia le impediscono, sostanzialmente, di vivere la sua vita.

5) Psyco

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Poteva mancare il capolavoro di Alfred Hitchcock in questo breve elenco di thriller psicologici che mi hanno segnato nel profondo? Ovviamente no.
Il film del grande maestro della cinematografia è del 1960, in bianco e nero. È tratto da un racconto di Robert Bloch ed è accompagnato da una tra le più iconiche colonne sonore di tutti i tempi, scritta da Bernard Hermann. Gli interpreti sono Anthony Perkins, nei panni di Norman Bates, e Janet Leigh, nei panni di Marion, ruolo che le valse il Golden Globe come miglior attrice protagonista.

Della storia, in realtà, non ho un ricordo particolare. Più che altro sono le sensazioni di quello che non si vede ad avermi segnato. E con me, milioni di spettatori. Perché il film del regista britannico è un capolavoro dell’allusione, del vedo/non vedo. Un capolavoro di intenzionalità velata e minacciante che alla fine non ha la sua doverosa e quasi necessaria catarsi.
Il film di Hitchcock è un inno all’ambiguità, alla luce e il buio e alla rappresentazione dell’immagine del sé attraverso lo specchio. Questi elementi, che tra loro hanno molto in comune, lo rendono un film semplice e quasi lineare e al tempo stesso complesso e tortuoso.

6) Un giorno di ordinaria follia

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Visto al cinema quando uscì, nel 1993, e in televisione recentemente Un giorno di ordinaria follia è uno di quei film che col tempo non ha perso davvero niente. Anzi, si è guadagnato un’aura profetica.

Un giorno di ordinaria follia, scritto da Ebbe Roe Smith e diretto da Joel Schumacher, racconta la storia di una persona qualsiasi che, a un certo punto della sua vita, perde il lume della ragione. Bill, interpretato da Michael Douglas, si trova invischiato in un ingorgo stradale e decide di scendere dall’auto abbandonandola in mezzo al traffico. Con questa decisione l’ex dipendente di una azienda che lavora per la Difesa non sa ancora di aver tirato una riga indelebile sulla sua vita e su quella della sua famiglia composta dalla ex moglie e una figlia.
Michael Douglas è meraviglioso in questo ruolo. Veste un paio di pantaloni neri, una camicia bianca a manica corta con taschino dentro il quale sono sistemate delle penne. Il taglio di capelli è squadrato, corto ai lati e più lungo in alto. Gli occhiali hanno una montatura dozzinale. È, insomma, il Frank “Grimmione” Grimes de Il nemico di Homer ne I Simpson.

Il film è un crescendo continuo, sottolineato dal susseguirsi delle armi che capitano nelle mani di Bill, sempre più potenti e letali. Sebbene il protagonista abbia un ordine restrittivo nei confronti dell’ex moglie e della figlia, certe scene danno l’impressione che non sia un violento e che l’aggressività che sta sfogando sia frutto di un terribile senso di frustrazione impossibile da contenere ulteriormente.
Nel corso del film Bill incrocia una serie di oppositori tutti con la medesima caratteristica: quella di possedere il potere di modificare la vita altrui. Un potere che viene esercitato per complicare e non per risolvere i problemi.

Il film lascia una sensazione di equilibrio precario e l’insoddisfazione e la mortificazione continua di Bill diventano nostre. Guardandolo oggi si ha l’impressione di leggere un concentrato di cronaca nera cittadina su un social qualsiasi, correlato dal più classico e banale dei commenti: “la gente non sta bene“.
La presenza di Robert Duvall, che interpreta il poliziotto prossimo alla pensione ma che ha ancora a cuore i problemi del cittadino comune e si adopera per cercare di risolverli, è la classica ciliegina sulla torta perché fa pensare che forse, in un altro momento e con un’altra attenzione tanto malessere potrebbe essere evitato.

7) Memento

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Per concludere questa carrellata sui thriller psicologici adesso parleremo del primo grande successo di Christopher Nolan, che del film è anche coautore insieme al fratello Jonathan: Memento. Visto in videocassetta (ebbene sì, sono vecchio) devo ammettere di non averci capito molto. Mi sono occorse altre due visioni per comprendere soprattutto il meccanismo del montaggio che rappresenta una vera genialata.
Il film, candidato a due premi Oscar, racconta la storia di un uomo che, a causa di un’aggressione, ha dei problemi di memoria e non riesce a immagazzinare nuove informazioni. La sua malattia, infatti, resetta il suo cervello ogni quindici minuti (da qui il montaggio che fa partire nuove scene ogni quindici minuti, infatti) e lo costringe a segnarsi praticamente tutto quello che gli accade.

Al di là dell’interessante storia, un’indagine su un omicidio, Memento affronta un problema decisamente importante: quello della memoria e del fatto che questa rappresenti quello che siamo.
Perdere la memoria è una delle paure più ricorrenti dell’uomo moderno. Siamo abituati a immagazzinare informazioni una dietro l’altra ma non abbiamo realmente idea di come funzioni la nostra memoria. La si paragona spesso a quella dei computer anche se non è proprio così. La memoria rappresenta l’identità e la sua perdita è paragonabile all’oblio. Il protagonista del film, interpretato da uno splendido Guy Pearce, ha il problema però di non riuscire più a costruire la sua vita perché costretto ad appuntarsi tutto ogni quindici minuti.

Come tante altre cose anche la memoria gode di una sorta di indefinitezza propria. È lo stesso protagonista a dirlo nel film: i ricordi possono essere distorti e modificati e risultano essere una sorta di interpretazione personale legata alle sensazioni. Non è un caso che due persone che fanno la stessa cosa ne abbiano un ricordo differente. Per questo il film dei fratelli Nolan è così profondo e capace di suscitare forti emozioni: perché tocca la parte più intima e indefinita di ciascuno di noi.

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