Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sul film Vermiglio.
Immaginate per un attimo un globo di neve, uno di quelli che un tempo riempievano le case. Una piccola sfera con dentro della neve finta e, spesso, una casetta essenziale persa chissà dove. Un gioco per bambini, un microcosmo. Guardavi dentro e la fantasia volava chissà dove: era solo una casetta con una manciata di neve. All’apparenza, almeno. Ma visto che la bidimensionalità stanca presto, il pensiero viaggiava poi via oltre i suoi confini, disegnando nuovi mondi. Storie, personaggi, cose. Il globo di neve diveniva così altro: una base di partenza. Il porto sicuro era l’approdo primario per portarci altrove. Ecco, Vermiglio sembra essere un po’ questo: a una prima occhiata, è un globo di neve che potrebbe raccontare “solo” quello che vediamo. Un piccolo paese perso tra i monti, ricordato da Dio con una carezza caritatevole. Una manciata di personaggi ignoti, la casetta modesta ma solida.
C’è però una mano invisibile, quella della bravissima regista Maura Delpero, che muove costantemente il globo, scuotendo la neve fino a trasportarci ovunque, senza mai muoversi dal paesino.
Da Vermiglio, quello che senza impegnarsi granché è definibile come un “luogo dell’anima”. Per arrivare a noi, sospesi in un tempo solo apparentemente immobile. Una marcia costante e silenziosa che attraversa le stagioni e ci riporta all’universalità del nostro Paese attraverso una storia peculiare e personale, scritta col sentimento e messa in scena con la maestria di una veterana. Già , una veterana: il nome di Maura Delpero era sconosciuto al grande pubblico fino a pochi mesi fa, ma è un’autrice vera con una lunga esperienza alle spalle. Vermiglio è “solo” il suo secondo lungometraggio: il suo lungo percorso verso il successo è però costellato di tappe importanti, così come lo è il suo film.
Un film partito da Vermiglio e prossimo (si spera) all’approdo a Los Angeles, dove potrebbe avere più di una possibilità di conquistare l’Oscar dedicato al Miglior film internazionale.
La storia di Vermiglio, disponibile da pochi giorni su Sky e Now, è in divenire. Candidato ai recenti Golden Globe nella già citata categoria dedicata al Miglior film straniero, è stato battuto dal quotatissimo Emilia Pérez. Per gli Oscar, invece, se ne riparlerà a breve. Il successo silenzioso l’ha portato a essere selezionato dall’Italia per rappresentarci alla prossima edizione, dopo aver superato titoli molto più accreditati alla vigilia. Per intenderci: il 2024 italiano sembrava essere in tutto e per tutto l’anno del pur splendido Parthenope di Paolo Sorrentino, ma la vis intimista di Vermiglio ha avuto la meglio sugli altri.
Una notizia eccezionale per il nostro cinema. Vermiglio è un outsider senza grandi mezzi alle spalle e valorizzato con cura dalla visione lucida del distributore Lucky Red, capace di massimizzare le risorse non eccezionali a disposizione con una campagna oculata e cadenzata. Un percorso lento e costante che ha portato il film a fare breccia sul pubblico con numeri importanti rispetto alle premesse.
E la critica? La critica non ha mai avuto dubbi a proposito del valore espresso dall’opera di Delpero.
Premiato a Venezia col prestigioso Leone d’Argento, è poi sbarcato a Hollywood con recensioni più che generose. Elogiato, tra l’altri, da Variety, Vermiglio è il classico film che nessuno aveva visto arrivare. Una volta sbarcato, però, se ne riconosce immediatamente la statura. Un percorso lento e cadenzato, si diceva. La storia di Vermiglio riflette in qualche modo la dinamica del film stesso, schiusosi per quattro stagioni col passo deciso e costante di chi non ha fretta di arrivare ovunque voglia arrivare. Un mosaico di situazioni, personaggi e dinamiche dal valore artistico notevole, tanto da protrarre la sua forza narrativa ed espressiva ben oltre il circuito chiuso dai titoli di coda.
Ma di cosa parla, Vermiglio?
La Seconda Guerra Mondiale è ormai al tramonto. Gli ultimi atti del terribile conflitto restano confinati alle porte di un piccolo borgo trentino situato nella Val di Sole. Un ultimo avamposto, una terra di confine persa in una bellezza mai intaccata dalla vorticosa frenesia del tempo. In quella terra di meraviglia e di stupore, si mette in scena una storia dai contorni solo apparentemente magici e incantati.
Tutto va al suo posto fin dal primo istante. Una famiglia numerosa d’altri tempi, la famiglia dei Graziadei, è guidata da un austero capofamiglia (uno straordinario Tommaso Ragno) che fa il maestro nella scuola primaria del borgo. Lo status quo è intaccato solo in parte da una guerra della quale sentiamo solo gli echi più o meno vicini. Un aereo, ogni tanto. Le sparute esperienze di chi va e chi torna, le righe dei giornali letti dal capofamiglia, le fisiologiche difficoltà incontrate giorno dopo giorno. La guerra è altrove, pur essendo radicata nell’apparente placidità di Vermiglio.
Il tempo pare non intaccare la sua statica quotidianità , proveniente da mondi lontani e dal sapore antico. Dall’uso funzionale del dialetto solandro, composto da suoni duri e da una musicalità a suo modo unica, al costante imperversare del latino nella radicata sfera religiosa, il Novecento sembra essere entrato silenziosamente dentro Vermiglio. Un ingresso discreto, ma non per questo invisibile. Intangibile, eppure presente.
A un certo punto, però, succede qualcosa. Un giovane ragazzo siciliano, considerato un “disertore”, fugge via dalla guerra insieme a un compagno e approda nel piccolo borgo.
Qui si innamora di una delle giovani Casadei, Lucia (un’intensa Martina Scrinzi), e i due danno vita a una relazione che si sublimerà in una gravidanza e un matrimonio. Una volta che la guerra finisce, tuttavia, il giovane ragazzo torna nella sua Sicilia: quello che Lucia non sa, però, è che lì il ragazzo, già segretamente sposato con una ragazza del luogo, verrà ucciso dalla stessa con quello che viene definito dai giornali “un delitto d’onore”.
Vermiglio si avvolge allora intorno alla tragica figura di Lucia, partoriente e distrutta dall’imprevista evoluzione degli eventi. La portatrice della vita diviene l’incarnazione della morte. La Primavera e l’Inverno, nella medesima figura. Il borgo, parallelamente, disvela la sua vocazione presente e futura. Un nido instabile, lido di partenza per trovare maggiori fortune altrove. Vale per Lucia, costretta ad andare via per rimettere in ordine quel che resta della sua vita, ma anche per i numerosi personaggi che migreranno verso terre più o meno lontane, lasciando Vermiglio alla sua candida purezza apparente.
Il tempo, in quest’ottica, assume una centralità totalizzante.
Se da un lato abbiamo il globo di neve evocato in apertura, estraneo solo in superfice alle logiche di un secolo nel quale il borgo sembra non trovare più uno spazio vitale votato alla prospettiva, dall’altra abbiamo immagini che giocano abilmente tra la staticità monumentale e un dinamismo che si muove quasi impercettibilmente sullo sfondo. Si restituisce, così, il senso più profondo di una pellicola che gioca sui contrasti e i chiaroscuri con grande personalità , rendendo vorticoso l’incalzare di eventi che assumono centralità sullo sfondo percepito, senza distogliere il nostro sguardo da uno scenario che non smarrisce mai la magia (per certi versi ingannevole). Le stagioni rimbalzano l’una dopo l’altra, scandite dalle maternità e dalle vite che se ne vanno in un flusso costante.
Al di là della bellezza dal sapore atavico, emergono, attraverso una composizione attenta e dal sapore quasi documentaristico, le storture di un microcosmo aggrappato alla ciclicità delle stagioni e deformato dalle dinamiche tossiche di un patriarcato che allunga le mani sul suo mondo senza aver mai bisogno di alzare i toni. Da Vivaldi si arriva alla monolitica figura di un capofamiglia dai malcelati tumulti, proiettato in avanti e indietro in egual misura. In parallelo, le età dell’innocenza e della disillusione scandiscono gli eventi con un approccio intimista, focalizzato sui singoli all’interno di un quadro corale che smarrisce gli impulsi comunitari più essenziali coi quali si era aperto Vermiglio.
L’esperienza con la pellicola si fa così ricca di soggettività .
Un’esperienza che gioca sulla lentezza con l’abilità di una pittrice che infonde forza a ogni dettaglio. I dialoghi e le parole sono così corredo di espressioni, note e immagini tratteggiate con un approccio personale ed efficace, portandoci alla fine con l’idea che Vermiglio si sia stratificato su un’infinità di dimensioni narrative suggerite più o meno esplicitamente, senza mai ricorrere a soluzioni didascaliche o semplicistiche.
Ne traiamo, allora, un’immersione preziosa in un mondo che dalla fotografia si trasferisce alla sequenza di fotogrammi. Istantanee che restituiscono gli impulsi alla vita al di là della necessità di sopravvivere in condizioni estreme, aperte sul mondo più di quanto la fermezza di un singolo scatto potrebbe mai evocare. Sì, il globo di neve: poi, però, viene fuori tutto il resto. Una spinta al movimento e al cammino tra il tempo della vita e quello di un secolo nella sua interezza. L’eterno presente è scosso da una mano invisibile che afferra la sfera e non la ferma più.
Un movimento dolce e gentile, ma deciso e inarrestabile. Una storia arrivata da lontano per entrare dentro le nostre vene con un sussurro al nostro orecchio. Un sussurro pieno di energia, come pieno di energia è un film che ha trovato il suo posto nel mondo con l’ostinata determinazione di chi ha qualcosa di speciale da raccontare. Ogni riconoscimento è e sarà una naturale conseguenza: l’artigianato del cinema italiano sa ancora produrre delle creature dal valore inestimabile, finalmente riconosciute dal pubblico più maturo e degne delle platee internazionali più prestigiose.
In origine fu un globo di neve, poi arrivarono le stagioni.
Antonio Casu