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Il film del mese – Viale del tramonto

Viale del Tramonto
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Sono tantissimi i film indimenticabili nella storia del cinema; quelli che non invecchiano col passare del tempo e che non ci stancheremmo mai di vedere. Hanno una padronanza tecnica tale da spiazzarci, dando vita a personaggi iconici, trame avvincenti e messaggi profondissimi. Così, evocano in noi emozioni pure, si fondono con i nostri ricordi, ci fanno provare esperienze che ci cambiano da dentro. Dimostrando che sì, i film contano. E, se molto è legato al gusto soggettivo, ci sono delle pietre miliari che mettono d’accordo tutti. Allora, ogni mese dedicheremo una recensione approfondita a un cult intramontabile, scolpito nella memoria collettiva e così significativo da essere ancora oggi attuale. E il primo è, personalmente, uno dei miei preferiti: Viale del Tramonto.

Leggenda vuole che Billy Wilder stesse camminando in quella Sunset Boulevard attorno alla quale ruotava la produzione cinematografica prima del sonoro e dove, dunque, molte star avevano preso casa. Allora, si chiese come vivessero quelle vecchie glorie del cinema muto e, da questo interrogativo, costruì una profonda e meravigliosa opera che definire capolavoro è addirittura riduttivo.

Perché Viale del Tramonto è molto più di un semplice film. E lo vediamo già dalla sua memorabile scena d’apertura.

Dopo l’inquadratura sulla scritta Sunset Boulevard, iniziano i titoli, mentre la macchina da presa si alza con una carrellata all’indietro e sentiamo la voce rassicurante del narratore. Scopriamo subito, però, che appartiene a Joe Gillis, ovvero quel corpo galleggiante nella piscina di una villa, che vuole raccontarci i sei mesi antecedenti alla sua morte, prima che i media distorcano la verità. Questa è la prima volta che incontriamo il protagonista, ripreso con una tecnica azzardata per gli anni 50, ovvero girare dal basso in acqua, sebbene vennero fatte delle prove con specchi e manichini per riprenderlo dall’alto. La contraddizione narrativa è evidente, dato che è un morto che parla, e ciò implica la sospensione dell’incredulità, anche perché non ci viene detto come un cadavere possa farlo. Eppure, così Wilder, rivelandoci prima l’accaduto, crea ancor più tensione rispetto a qualsiasi finale a sorpresa. Ed è semplicemente geniale.

Dopo la dissolvenza, inizia il lungo flashback narrativo, con una ripresa che passa dal campo lungo fino al particolare della finestra, mostrandoci Joe che scrive; lo stesso movimento aprirà dieci anni dopo l’iconico Psycho di Hitchcock.

Hollywood ha tradito Joe, interpretato da un ottimo William Holden. Tutto il successo che aveva guadagnato è sfumato e nessuno compra più le sue sceneggiature. Ormai la creatività deve lasciare il posto ai soldi, con le pellicole che non escono più da schemi fissi e sicuramente remunerativi. A niente valgono sacrificio e talento, perché si scontrano con un mondo dedito all’opportunismo e al guadagno. Eccola la prima brutale e realistica critica di Wilder a quello studio-system che soffoca sceneggiatori, registi, attori e, in generale, il cinema stesso. Ma Joe non vuole tornare nella provincia; vuole diventare ricco per non essere più costretto a indebitarsi. Così, attraverso i meccanismi narrativi della casualità e dell’equivoco, arriva nella villa di Norma Desmond. In lei il cinico e materialista Joe vede un’ancora di salvezza, anche se in futuro arriverà a disprezzarsi per essersi venduto così, come fosse un comune gigolò.

Il primo incontro tra Joe e Norma è surreale, un mix tra horror e Buñuel. Allo stesso modo Viale del tramonto è un misto tuttora insuperabile di generi e registri. Da sempre etichettato come un noir, contiene elementi del melodramma, della commedia, del thriller e dell’horror – pur senza i tipici brividi o gli spaventosi colpi di scena.

E non ne ha bisogno, perché ha Norma Desmond, che incarna gli aspetti più oscuri di Viale del tramonto.

Viale del tramonto

L’ingresso nella villa è costruito come se Joe stesse entrando in uno spettrale castello gotico, grazie anche al taglio espressionista della fotografia. E non tarda ad arrivare il vampiro Norma, con gli occhiali a protezione dello sguardo, le mani come artigli e l’alone di morte che la segue. La casa è praticamente un tempio dedicato al culto necrofilo della sua immagine; ogni cosa è in rovina e contemporaneamente maestosa, come la diva prigioniera del suo passato; l’architettura è degli anni 20, esattamente il periodo più florido della sua carriera. Per accentuare il decadimento di quest’aura funebre, Wilder si serve ingegnosamente di giochi di specchi, come ad esempio quando Joe osserva Norma salire le scale dal suo riflesso.

Allora, Wilder estende la sua critica allo star-system o divismo. Perché se Norma ha un’immagine distorta di sé, non accetta il tempo che passa, è convinta di poter ancora interpretare la giovane Salomè e si aggrappa con vanità ai fasti del passato per sentirsi viva, lo deve allo sfruttamento di una spietata Hollywood. L’industria prima si è servita di lei, facendole assaporare il sogno americano, e poi, col sonoro, l’ha gettata via come fosse spazzatura. Per questo ha bisogno di Joe: non tanto per amore, dato l’arrivismo che pervade ogni personaggio di Viale del tramonto, ma perché deve essere nuovamente al centro dell’esistenza di qualcuno. Ciò è racchiuso dalla frase intrisa di soffocante nostalgia:

“Io sono sempre grande. È il cinema che è diventato piccolo.”

Per Norma, infatti, il cinema nuovo è “il vuoto assoluto”, a causa della contaminazione della parola, e si rifiuta di dare il proprio talento a pellicole che umiliano la settima arte. Il risentimento è tale che si crogiola nella sua villa, circondata da divi del muto – come l’indimenticabile Buster Keaton – e guardando in loop i propri film. Geniale è l’uso delle pellicole in cui ha realmente recitato l’interprete di Norma, Gloria Swanson: nel suo salotto viene proiettata La regina Kelly, diretta da quell’Eric Von Stroheim che, in Viale del Tramonto, è il maggiordomo Max. Wilder fonde così realtà e finizione, mentre Swanson/Norma emerge dall’oscurità, investita dalla luce del proiettore, invocando il diritto a non cadere nell’oblio.

Con Norma, Wilder risponde a una delicatissima domanda: quanto è labile il confine tra finzione e realtà? Perché la diva è totalmente immersa nel suo mondo fittizio, tanto che Joe sente il bisogno di tornare in quello reale, rappresentato da Betty: sebbene vivano il loro amore su uno scenario di cartapesta – dunque finto – i primi piani sottolineano la tragicità del loro sentimento. Inevitabilmente, questo scontro colpisce Norma. Non possiamo non provare empatia per questa creatura mostruosa ma terribilmente umana, che rende il film intimamente struggente. L’apice viene raggiunto quando Norma va sul set della Paramount, dove Cecil DeMille sta realmente girando Sansone e Dalila. La diva è nella terra dei vivi, illuminata e circondata dall’affetto. Ma è una parentesi veloce. Un microfono la colpisce, ricordandole che ormai è sovrastata dal sonoro, mentre DeMille urla crudelmente di riportare il riflettore là dove appartiene. Ovvero, lontano da Norma.

È, dunque, con i personaggi, decadenti e appartenenti al mondo del cinema, che Wilder gioca brillantemente con questo confine. Soprattutto, con la magnifica Gloria Swanson.

Anche l’attrice mancava dalle scene da molti anni, rendendola ancor di più una perfetta Norma. Sebbene non fosse la prima scelta: infatti, venne ingaggiata su suggerimento di George Cukor dopo i rifiuti di Greta Garbo, Norma Shearer, Mae West e Mary Pickford. Dalle espressioni, dai gesti e dall’interpretazione capiamo che la sua recitazione – che innalza notevolmente l’opera – è diversa rispetto agli altri attori, poiché proviene da quella scuola in cui una ripresa bastava e avanzava; lo vediamo, ad esempio, nel modo in cui Swanson si prepara davanti allo specchio, prima di fare pace con Joe. Non perde, poi, occasione per enfatizzare con fisicità l’artificiosità di Norma, rendendo teatrali le battute e le scene di gelosia, grottesca l’imitazione di Charlie Chaplin (e il funerale della scimmia) e patetico il tentato suicidio. Per arrivare all’iconica scena finale di Viale del Tramonto.

Ormai in preda al dolore, alla depressione e alla follia, Norma uccide Joe e perde il contatto con la realtà. In quella commedia che non potrebbe essere più drammatica e in quella maschera di felicità che nasconde autentica disperazione, è completamente diventata Salomè. Max, però, non ha il cuore di dirle la verità e la invita a uscire dalla sua camera perché la troupe cinematografica è pronta per lei. Mentre scende le scale, pronuncia l iconiche parole:

“Eccomi DeMille, sono pronta per il mio primo piano” 

Il suo volto occupa progressivamente lo schermo per poi dissolversi, mostrando quell’inquietante mostro che ha divorato sé stesso. Qui Wilder sceglie la finzione, cullando Norma nella sua illusione, fermando il tempo e permettendole di sentire di nuovo il sapore del trionfo. E a noi sembra, infatti, di esserci destasti da un inquieto sogno, colpevoli di averla abbandonata, intrappolandola nella sua follia. Perché, in fondo, tutti, come lei, condividiamo il terrore di essere dimenticati. Come se non avessimo mai vissuto.

Ed è forse questa la componente più reale, ovvero il mondo in cui Viale del Tramonto entra in connessione con noi, raccontando la condizione del pubblico odierno e facendoci riflettere. Come per il muto e il sonoro, oggi stiamo vivendo un passaggio simile con l’evoluzione degli effetti speciali, che porterà al sacrificio di alcune componenti perché non più strettamente necessarie. Può piacere o meno, ma è inevitabile. Wilder offre quella nostalgia di cui certe volte abbiamo bisogno, ma anche il monito a non vivere nel passato, per quanto glorioso, o moriremmo come Norma. E allora, non resta che vivere il presente, senza però dimenticare chi l’ha reso grande.

Viale del Tramonto è, dunque, una storia passata che vuole conformarsi al presente, quando questo guarda già al futuro. È riflessione metacinematografica che ama profondamente Hollywood, ma ne mette a nudo i lati oscuri, senza retoriche o rischi di censura, attraverso un equilibrio pazzesco tra fascinazione e disillusione, rassicurazione e inquietudine, tra la morte nella villa e la solarità di Los Angeles. Mentre il tramonto si abbatte sulla vita dei protagonisti: quella di Joe, che da indomito leone diviene un mansueto gattino; di Max, un tempo grande regista e ora servo devoto; di Norma, ormai diventata una statua vivente; del vecchio cinema fatto di sguardi e gesti, mentre la parola avanza e le nuove generazioni, pur amandone la forza, non lo comprendono più. Tramonta la gioventù spensierata e ingenua, lasciando il posto alla crudeltà di un’avida società.

Ma ciò che non tramonterà mai è la grandezza di un’opera incredibile, ancora attuale dopo settantatré anni, con uno dei personaggi più belli del cinema e che a ogni visione regala sempre qualcosa di nuovo.