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Xavier Dolan è una poesia

Finché non lo conosci vivacchi e non ti manca, ma se un giorno ti capita di imbatterti in una pellicola, in quella giusta, niente poi sarà più lo stesso. Devi essere fortunato, però. Con Xavier Dolan è un attimo, l’abbaglio di un secondo, e poi tutto viene rovinato prima ancora che cominci. Ma se la scelta sarà quella giusta, allora il Cinema per te sarà teatro di meraviglie che faranno rima con la tua esistenza, anche quando apparentemente pensi di non aver niente in comune con quella pellicola. Comincia da Mommy, comincia da Juste la fin du monde, da J’ai tué ma mère. Comincia con queste tre pellicole: è l’unico modo che avrai per amare i suoi errori successivi. L’unico modo per giustificare il lavoro a metà de Les Amours imaginaires, l’incomprensibile de Tom à la ferme, il disastro de La mia vita con John F. Donovan, tutto quello che in più avrebbe potuto dire in Matthias e Maxime. Comincia con Mommy, Juste la fin du monde e J’ai tué ma mère, e vedrai che in qualche modo Xavier Dolan per te non sarà più un regista incompreso, ma un artista che sa stare dietro e davanti alla telecamera nello stesso modo. Quasi nascondendosi, quasi portando con sé un pluralismo di invidividui che condividono l’unica cosa che ci rende uguali: il chiassoso suono di un’esistenza che non chiede altro se non un attimo di tempo per respirare. E ricominciare.

Xavier Dolan lo sa prima di te. Lo sa prima di tutti. Da dietro la macchina da presa si fa strada verso il palcoscenico e, guardando la lucina rossa che conferma l’inizio delle riprese, comincia a raccontare. Comincia a raccontarti

Xavier Dolan (640×360)

A diciannove anni si mette dietro la macchina da presa per la prima volta, e il lavoro che fa risuona ancora come uno dei migliori mai messi in atto. J’ai tué ma mère porta il peso di un ragazzo appena maggiorenne che odia sua madre. Questa è la storia vera che si nasconde dietro all’opera prima di questo regista canadese definito da tutti come un enfant prodige. Ma Xavier Dolan non è un ragazzo prodigio. Con il solo suo talento sarebbe durato il tempo di qualche film, dei suoi migliori film, e poi sarebbe svanito. La ragione per cui Dolan continui il suo percorso ha a che fare con quella cosa che lo rende diverso da qualsiasi altra mano: l’umanità. Il senso di vita che il regista restituisce alle sue opere è così imponente da rendere umani perfino i suoi disastri, perfino quei film che andrebbero rigirati da capo e che invece, alla fine, ami anche così: sporchi. Xavier Dolan è una poesia che non conosce ritmo, una serie di parole che non trovano assonanze. E’ un verso scritto male che però sa comunicarti cosa sia l’esistenza come nessun’altra poesia mai letta in giro.

Non ti resta altro da fare: anche quando sbaglia lo perdoni. Lo perdoni perché lo conosci e sai che quello che ha fatto con Mommy, J’ai tué ma mère e Juste la fin du monde non puoi metterlo da parte. Ti ha permesso di capirti, di vederti attraverso gli occhi di un canadese che non hai mai visto ma che, paradossalmente, ti sembra la persona più vicina a te. Quella che più ti conosce al mondo anche se non l’hai neanche mai beccata per strada. E alla fine succede così: ti ci affezioni, e impari ad amarlo con tutti i suoi no, con i suoi tentativi non riusciti. Lo ami per la sua delicatezza, per la sua fragilità, perché è innaturale non farlo.

Lo ami anche se ti sembra assurdo che sia passato da un Mommy a un La mia vita con John F. Donovan. Lo ami perché sai che il risultato è stato diverso, ma uguale è stata l’intenzione. Anche in quel caso aveva tutta la volontà di darti una pacca sulla spalla e ricordarti che alla fine la solitudine è una questione complicata, ma che se ti aiuti solo non lo sarai mai. Non te lo dice come sa dirlo in altri film, però te lo fa capire dai toni e dai modi con cui porta avanti quella storia dalla struttura sbagliata. Ma soltanto se lo conosci ti rendi conto che delle strutture non te ne frega niente se si tratta di lui.

Juste la fin du Monde (640×360)

Per le strutture ci sono gli altri registi, quelli che ti hanno introdotto al mondo del cinema insegnandoti cosa voglia dire fare un film. Sono perfetti, quasi maniacalmente ordinati. E li ami, li ami per questo, perché almeno per un’ora e mezza della tua giornata qualcosa va secondo i piani restituendoti un capolavoro che diventerà tuo. Ma Xavier Dolan, per lui la questione è diversa. Se gli altri ti hanno insegnato cosa voglia dire fare un film, lui ti ha insegnato cosa significhi essere un film. Come si traducano le nostre essenze malconce, la nostra insoddisfazione, la nostra rabbia, e pefino quella brutta bestia del rancore. Ti ha raccontato che se proprio non riesci ad avere un rapporto con i tuoi genitori non sei fatto male o programmato per cercare l’astio. Puoi andare avanti, puoi andare oltre, puoi permetterti un attimo di tempo per respirare e capire da che parte cominciare. Non devi correre da una parte all’altra cercando di trovare delle risposte, perché a volte è solo una questione di tempo. Non sempre, ma a volte sì.

Dolan ti traduce. Ti mette dentro la sua pellicola e impara a disegnarti con tutti i tuoi interrogativi, con tutte quelle risposte che ti mancano e che non troverai mai da nessuna parte, neanche se ti impegni. Per saper risolvere le domande, devi guardare lì dove non guardi mai. Lì all’altezza del tuo petto, dentro il tuo petto. Con un po’ di fatica e un po’ di delicatezza, senza alcun ordine e con una mano nel petto che afferra senza fermarsi, alla fine qualcosa la troverai e ti renderai conto che era proprio come lui l’aveva descritta. Nella sua stessa forza e nella sua stessa delicatezza, con le sue contraddizioni e con le sue cose fatte male.

Xavier Dolan non è per tutti, ma lui racconta il mondo di chiunque. Non è un regista che dirige la storia pensando che il suo destinatario possa esser pronto a sentirla, ma fa finta che sia così. Va di getto, e poi lascia che il terremoto cominci. Toglie il pavimento sotto i piedi e, come soltanto lui sa fare, ti fa fluttuare liberandoti per un attimo da quei macigni che ti obbligano sempre a rimanere per terra, costringendo il tuo corpo alla rassegnazione. Ma non c’è rassegnazione con Dolan. Con Dolan esiste soltanto il suono di una poesia che non conosce assonanze e che, anche senza ritmo, alla fine ti racconta il mondo per com’è, obbligandoti a guardare le cose dall’alto. In disordine e compromesse, rovinate e meravigliose, brillanti e terribili.
Ma tutte queste cose sono te, e finché dipende da te c’è ancora possibilità. Anche se non ci crederesti mai.

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