Pretendi di ritrovarti all’interno di tutto. Se hai deciso di premere play e immergerti in una storia, allora il minimo che possa succedere è che quella storia ti rappresenti, ti si avvicini, ti massacri. Non è il modo giusto di guardare un film, ma è una delle tante opzioni. Se sei sfortunato, becchi proprio questa così da essere sicuro: anche amare una pellicola, con questo metodo, sarà complicato. Pretendi che sia umana, che non si dimentichi di te, ed è qui – e così – che nasce Xavier Dolan.
Xavier Dolan è un regista imperfetto, scostante, folle. Usa le storie quotidiane e fonda le sue pellicole su tutti quei dettagli a cui noi non diamo mai ascolto, quelle cose che non guardiamo mai. La nostra distrazione è il suo tallone d’Achille, la superficialità con cui viviamo è la certezza che riuscirà a stupirci anche quando il film sarà deludente. Perché non stiamo parlando di un regista che azzecca sempre le scelte che fa, anzi. Molto spesso ci ritroveremo a chiederci perché abbia fatto determinate cose, perché – vista la sua anche giovane età – non abbia riflettuto, perso più tempo dietro a un progetto. Ha sempre avuto tutto il tempo del mondo, ma non gli è mai importato nulla del tempismo. Irresponsabilmente ha giocato tutte le sue carte quasi in maniera supponente dando vita solo ai dettagli che delle storie gli interessano, quelli nascosti che trovi negli sguardi, nel non detto, nel rumore che si crea quando fumi nervosamente una sigaretta. Quando sei così concentrato solo sui lati più nascosti hai due opzioni, o riesci perfettamente o sbagli tutto. Questa è la regola generale, regola a cui perennemente Xavier Dolan riesce a sottrarsi.
Perché – come dicevamo – Dolan sbaglia, e lo fa tante volte, ma alla fine riesce sempre a cavarsela, a non superare il limite che riesca a farlo diventare una via di mezzo, un incomprensibile esperimento. Anche quando il film non convince, ti resta addosso. Les Amours Imaginaires e Tom à la ferme sono forse gli esempi più concreti: durante la visione facciamo un passo indietro mentre veniamo travolti dagli eventi chiedendoci quale sia davvero l’obiettivo del film, ma lo facciamo sempre con riserva. Se siamo dei Daloxani, sappiamo bene che il nostro giudizio reale verrà fuori solo alla fine del film, e che questo maledetto anche stavolta ci fregherà.
Perché è quando il film finisce che comprendi che Xavier Dolan ha vinto di nuovo, e lo ha fatto anche se non è stato all’altezza dei suoi due capolavori Mommy ed È solo la fine del Mondo. Ha vinto perché ha guardato oltre, anche oltre la qualità effettiva di cui obbligatoriamente deve rivestirsi una pellicola.
Ha vinto di nuovo perché ti è rimasto addosso. Anche se il film è finito, tu sei ancora lì, bloccato, inerme. Perdoni i momenti sottotono, gli perdoni anche tutti gli errori tecnici tangibili, gli perdoni tutto. A Xavier Dolan si perdona sempre tutto: è una legge non scritta contro cui nessuno può lottare. Tutti i registi possono sbagliare, ma lui ha un modo tutto suo di farlo. I suoi sono errori alla Dolan, imperfezioni che ti consegnano una pellicola che al posto dei paesaggi, ti regala sguardi rotti. L’intimità di cui si serve il regista canadese è tangibile, sofisticata. Non gli importa il rapporto tra tutti i personaggi, gli interessa quello che tu instauri con loro. È una specie di fissazione la sua: ha bisogno che tu sia presente e per farlo decora l’ambiente sempre nello stesso modo, così tu – qualsiasi cosa succeda – sarai comunque a casa.
Non puoi dimenticarti di lui, perché lui non si è dimenticato di te. Inserisce ogni tuo possibile evento nella sua pellicola e poi ti chiede di guardare quali secondo lui sono le cose importanti, le cose che fanno la differenza, accusandoti velatamente di non averle notate prima.
È solo la fine del Mondo è la prova schiacciante di quanto appena detto. Dolan decide di mettere in scena una storia già scritta e riscritta, ma lo fa a modo proprio dando spazio a tutto quello che non immagineresti mai. Perché per l’intero film, guardando il protagonista, non fai altro che immaginare il momento in cui farà la sua rivelazione, ma quando scopri che questa non accade comprendi che va più che bene così, che sei già sazia. Perché Xavier Dolan non spettacolarizza il dolore, lo rende intimo donandogli il giusto rispetto. Non vuole creare commozione con una storia strappalacrime fatta di tutto quello che sa saprà essere leggibile, ne vuole creare una in cui si piange solo perché si ha, purtroppo, compreso.
Per questo motivo, forse, è così interessato al personaggio di Catherine: perché è zitto, timido, parla delicatamente e nello stesso modo comprende. Non è l’attrice protagonista. Sta ai margini, quasi a voler sottolineare – ancora una volta – quanto questi siano in realtà fondamentali.
Comprendere, in un film di Dolan, spesso significa ritrovarsi. Con Les Amours Imaginaires il regista canadese dà prova di essere nient’altro che questo: un posto scomodo in cui sai stare, che anche se logorante riesce a essere casa tua. Un disastro che ti fa da specchio. Non gli interessa andare oltre dallo schema del film, non gli importa dettagliarlo di cose che tra loro sanno incastrarsi, gli interessa essere reale.
Argomenta le sue riflessioni introducendo parti documentaristiche che per forza di cose, da un punto di vista stilistico, stonano in superficie con la natura del film che ha creato e anche se lo sai, alla fine, chi se ne frega. Perché va bene, riesce a farlo andare bene creando un ambiente scomodo in cui i personaggi non si muovono in punta di piedi ma cercano di essere tutti dei protagonisti. Sta a te scegliere chi sia il reale punto focale, e alla fine – chissà come -stai al suo gioco, e lo decidi davvero.
Stai sempre al suo gioco, perché – se sei fortunato – la tua prima volta con lui è stata con Mommy. Questa pellicola è a tutti gli effetti la sua Bibbia. Se vuoi conoscerlo immediatamente, allora devi fiondarti su di lei perché all’interno tutta l’essenza di Dolan è leggibile, chiara, trasparente. Si presenta a te, lo fa come persona e poi come regista. Fa il suo tema scritto perfetto, quello che colpisce la professoressa e poi tutta la classe, quello che lo salverà quando sbaglierà il resto dei compiti, arriverà in ritardo o sarà scostante. Sarà salvo perché perderlo potrebbe essere devastante, un rimorso che si paleserebbe sempre per ricordare quanto avrebbe potuto ancora dare.
A un film perfetto, Dolan preferisce un film reale in cui la parte della protagonista la fai tu, ma questo lo scopri solo mentre sei in scena. Non fai in tempo a organizzarti o a studiare la parte che stai già recitando in una pellicola nuda e cruda in cui non esisti nient’altro che tu e quei dettagli che diventano la tua vera essenza. Non puoi fare più nulla, Xavier Dolan ha fatto il suo primo Ciak, e adesso si fa a modo suo. Per fortuna, è anche il tuo.