È possibile essere ossessionati da una scena di una serie tv? Me lo sono chiesta qualche giorno fa in uno dei miei momenti preferiti della giornata, quello di dolce far niente di ritorno da una giornata in ufficio. È una coccola che mi piace concedermi: prendo il telefono, comincio il mio scrolling compulsivo dei social e non penso a nulla. La quiete dopo la tempesta. Il mio algoritmo sa che sono una patita di serie tv, e come sempre ha cominciato a propormi spezzoni di scene che ormai conosco a memoria. Ma tra Lexie Grey che si dichiara a Mark Sloan e qualche strana storia di Chicago Med è arrivata una scena di Fleabag. E io ho smesso di scrollare.
La scena in questione era ovviamente carta già conosciuta ed è forse la più celebre della serie. Fleabag e il Prete sono seduti alla fermata dell’autobus e lei capisce di aver avuto la peggio nella lotta ad armi impari contro Dio. Ma siamo sul finale della serie, e la protagonista ha ormai compiuto il tortuoso percorso di consapevolezza che la porterà, di lì a pochissimi minuti, a smarcarsi dagli spettatori e intraprendere una strada nuova, da sola. È il finale della serie (che puoi trovare qui in streaming su Prime Video) e Fleabag non ha paura di sentire – e ammettere – i suoi sentimenti, dando vita a uno dei dialoghi più brevi ma intensi della serialità.
I love you.
It’ll pass.
Ho smesso di scrollare e ho continuato a guardarla per qualcosa come venti minuti.
La scena finiva e io la facevo partire ancora, ancora e ancora, non riuscivo più a staccarmi. L’avevo già guardata diverse volte, tra la visione della serie e – per l’appunto – i miei momenti di dolce far niente social. Mai prima però mi era capitato di guardarla in questo modo, di sentire di non poterne fare a meno. Che io potessi essere ossessionata da una serie tv l’ho imparato una vita fa, quando alle elementari ho chiesto a mia madre di chiamare la Rai perché non riuscivo più a vedere Streghe in tv. L’ho confermato poco dopo, quando ho cominciato a sopperire alla mancanza guardando a oltranza le puntate che avevo previamente registrato su dei malcapitati VHS. Insomma, che tendo un po’ a fissarmi è ormai cosa risaputa.
Mi era già capitato anche di porre particolare attenzione ad alcune scene di serie a cui sono molto affezionata, di impararne a memoria le battute, di guardarle a ripetizione. Ma non mi era mai capitato così. Non avevo mai sentito il bisogno di continuare a guardare una scena, di viverla e riviverla quasi come se ogni nuova visualizzazione potesse cambiarne il contenuto. Come se a un certo punto il Prete avesse potuto dire I love you too prima che fosse ormai troppo tardi. Sapevo che non sarebbe successo, e forse se quella scena fosse andata diversamente non avrebbe avuto la stessa potenza. Forse non mi sarebbe piaciuta così tanto. Fatto sta che ho continuato a guardarla e a chiedermi: “Ma è mai possibile che questa scena mi stia ossessionando?”. La risposta è sì.
Chiunque abbia visto Fleabag sa che è una serie che crea dipendenza.
Se esistesse al mondo una lista di requisiti che una serie tv deve soddisfare per potermi davvero dare dipendenza, sono certa che rientrerebbe in tutti. È una serie breve, cosa che preferisco perché la sola idea di avere davanti più di tre stagioni da guardare – ad esclusione di rari casi – mi mette ansia. Anche gli episodi sono brevi, e questo favorisce esponenzialmente la possibilità di binge watching. Le situazioni sono scritte e descritte in modo preciso e dettagliato, la protagonista è un personaggio complesso e caratterizzato alla perfezione, i personaggi secondari si fanno amare e odiare nella giusta proporzione. Il linguaggio è colloquiale, il racconto realistico, e gli spettatori si sentono parte attiva della storia. Anzi, lo sono, visto che Fleabag rompe continuamente la quarta parete per parlare direttamente a noi.
Lo fa sempre, e nessuno se ne rende conto fino all’arrivo del Prete, un Andrew Scott a dir poco magistrale. Il Prete si presenta tranquillo durante una cena di famiglia, pronto a sposare il padre della protagonista e la tanto disprezzata e disprezzabile Matrigna. Arriva e non ha neanche un nome eppure lui a differenza degli altri, anche di sua sorella, vede Fleabag per davvero. Come è ovvio che sia, la situazione ben presto sfugge di mano e il rapporto tra i due si trasforma in qualcosa di più di una semplice relazione tra Padre e fedele in realtà atea.
Drink in lattina e lunghe chiacchierate si susseguono con costanza, e da lì al confessionale è un attimo. Il resto è storia e non starò qui a raccontarla: merita di essere vista, anche se non è detto che sapere cosa succede rovini la visione.
Sono tante le scene che rendono la storia tra Fleabag e il Prete così speciale.
C’è – per l’appunto – la scena del confessionale, quella in cui vediamo la Fleabag più autentica e contemporaneamente la scena più erotica di tutta la serie. Ci sono gli sguardi d’intesa, c’è la predica al matrimonio. Soprattutto, c’è il momento in cui il Prete chiede alla protagonista cosa sia quella strana cosa che fa così spesso: parlare con noi. È lì che avviene la prima piccola rivoluzione in Feabag, nel modo in cui sente di essere percepita dagli altri e in cui sceglierà di vivere il futuro. Nessuna di queste scene, però, è come l’ultima. L’ultima scena è un concentrato di amore e di rifiuto, di realtà, di speranza e di disillusione, di perdita e di forza. Ed è intensa come nessuna prima.
Sono tutte queste caratteristiche il motivo per il quale mi sono sentita tanto ossessionata dal finale di Fleabag? Sì, ma anche no. Credo sia un altro l’elemento che ha dato il colpo di grazia alla mia sanità mentale. Un elemento che è contemporaneamente personale e legato al prodotto:
La scena finale di Fleabag è la sincerità su piccolo schermo.
Se le relazioni, sentimentali e non, mi hanno insegnato qualcosa negli ultimi 28 anni è che nel 99,9% dei casi è più facile mentire – o per lo meno omettere, che poi che differenza fa?! – che essere sinceri con se stessi e con gli altri. Passiamo così tanto tempo a pensare a cosa potremmo e dovremmo dire, cosa potremmo e dovremmo fare, come potremmo o dovremmo giustificarci, da dimenticare cosa proviamo davvero. A volte, nel peggiore dei casi, non riusciamo nemmeno a scoprirlo, tanta è la paura di realizzare che si tratta di qualcosa di forte. Il finale di Fleabag è l’eccezione a tutto questo, forse proprio quella che conferma la regola.
La protagonista è innamorata del Prete e, dopo un lungo e tortuoso percorso di consapevolezza, glielo dice forte e chiaro. Lo fa con la consapevolezza di stare andando incontro a – perdonatemi l’espressione colloquiale – un palo di dimensioni colossali. Il Prete, dal canto suo, ama Fleabag e glielo conferma, ma il frutto della sua profonda riflessione su se stesso lo porta altrove, gli fa scegliere Dio. No, questo matrimonio non s’ha da fare. È una disfatta, e io avevo sperato che andasse diversamente pur essendo consapevole di quanto le probabilità fossero a sfavore della buona riuscita della coppia.
Eppure, nel suo essere un colossale rifiuto, è anche una speranza.
È la speranza che conversazioni come questa possano accadere davvero. La speranza che la consapevolezza dei propri sentimenti possa essere più forte della paura di tirarli fuori. Ultimo ma non per importanza, la speranza di riuscire a comprenderci davvero, noi stessi e gli altri. Io voglio aggrapparmi a questa speranza, e lo faccio ossessionandomi con la scena che ne è a mio avviso la più piena rappresentazione. Perché, banalmente, è proprio quello di cui ho bisogno in questo momento.
E se è capitato qualche volta anche a voi, cari lettori e care lettrici, di ossessionarvi con la scena di una serie tv, sappiate che vi capisco e che non siete soli. Se invece non vi è mai capitato sappiate che potrebbe accadere. Potreste trovarvi un giorno a scrollare scene di serie tv randomiche e poi, d’improvviso, non scrollare più. State tranquilli, è tutto normale, è esattamente quella che avete bisogno di vedere.