Molte serie che amiamo sono tratte da libri, a volte sono prodotti transmediali che arrivano dal cinema, dai fumetti e dalle graphic novel.
Fleabag arriva dal teatro: è una commedia originale della drammaturga britannica Phoebe Waller-Bridge che nel 2013 va in scena e viene premiata al Fringe Festival di Edimburgo. Prende la forma del monologo, ancor prima nasce come idea di sketch breve per una stand up comedy femminista e al femminile, interpretata dalla stessa Waller Bridge: uno “one woman show” in dialogo diretto con il pubblico e con solo una voce off ad accompagnare la narrazione.
Il grado di focalizzazione interna, lo sguardo e la parola rivolti agli spettatori provocano, sin dalla messa in scena teatrale, l’effetto defamiliarizzante e di alienazione brechtiana che avviene con la famosa, storica rottura della quarta parete. Fin qui siamo a teatro: vediamo Fleabag, unico nome che siamo in grado di dare alla protagonista, e lei vede noi, seduti in platea, ci parla, si confida. Instauriamo una relazione reciproca e compresente nello spazio e nel tempo.
Fleabag è una tormentata millennial londinese che gestisce una caffetteria con evidenti problemi finanziari, in lutto per la morte della sua unica migliore amica, con una famiglia disfunzionale e con tendenze all’autosabotaggio, alla ricerca permanente del sesso per compensare i vuoti della sua esistenza. E con un bisogno sfrenato, incontrollabile di commentare sarcasticamente tutto quello che vive rivolgendosi a un immaginario spettatore attivo che sta oltre la quarta parete, di continuo sfondata, concentrato e al contempo distratto dalla sua ammiccante personalità.
Ma cosa succede nella scrittura quando la storia e il personaggio sfaccettato di Fleabag dal teatro approdano sullo schermo e diventano una serie TV?
È qui che inizia una sfida, linguistica, estetica e narrativa, inedita e ancor più coinvolgente che rende Fleabag una delle dramedy più significative del decennio e la sua protagonista uno dei personaggi meglio scritti e recitati nella storia della televisione. Non a caso la serie (2016 – 2019, prime visioni UK), prodotta da BBC con Amazon Prime, vince – tra gli altri premi – 4 Emmy (2019) come miglior serie, sceneggiatura, regista e attrice, e 2 Golden Globe (2020) come miglior serie e attrice.
La sceneggiatura adatta il monologo teatrale declinandolo in due stagioni – 6 episodi ciascuna da 26 minuti – per un totale di 5 ore circa di visione. I personaggi, a teatro decantati dalla sola voce e immaginazione di Waller Bridge, che interpreta Fleabag anche nella trasposizione televisiva, diventano reali, entrano fisicamente nel suo universo. Quindi nel nostro.
Perché se c’è un aspetto innovativo e perfettamente riuscito di Fleabag è l’uso dell’audience address in una continua, a tratti compulsiva, ricerca del nostro coinvolgimento, “You”: un singolare/plurale con cui la protagonista ci richiama e rivendica attenzione, guardando fissa in camera. Waller Bridge, in diverse interviste, ha denominato questo dispositivo, semantico oltre che tecnico, “my secret camera friend”. Non è solo lo sguardo in camera infranarrativo che conosciamo da serie come Modern Family. Qui non ci sono interruzioni nella storyline, l’azione continua ma al contempo, come il narratore onnisciente nei romanzi, la protagonista ci offre più informazioni su ciò che vive filtrandole attraverso la sua personalità, eccentrica, irriverente, cinica e autodistruttiva.
Un registro stilistico – lo sguardo in camera, le espressioni facciali vivide, amplificate dai primi piani – che ingaggia e coinvolge cognitivamente, obbligandoci a un ruolo attivo, a volte disturbante rispetto alla storia stessa. In questa fitta e convulsa relazione che Fleabag instaura con noi spettatori, anche uno specchio per se stessa, ci sentiamo a volte confusi, manipolati, trasportati velocemente nei suoi flussi di pensiero, dove vuole lei. Questa nostra immersione assoluta nella diegesi la vediamo scritta (benissimo) sin dalla prima scena, nel primo episodio. Veniamo catapultati nel suo appartamento in piena notte e lei esordisce, guardando in camera, con questa frase memorabile:
You know that feeling, when a guy you like sends you a text at two o’clock on a Tuesday night asking if he can come and find you and you’ve accidentally made it out like you’ve just got in yourself so you have to get out of bed, drink half a bottle of wine, get in the shower (…) wait by the door ‘til the buzzer goes (…) And then you open the door to him like you’d almost forgotten he was coming over (…). Con quel “You know that feeling” (per inciso consigliamo la visione in lingua originale con i sottotitoli, un British English che ne è altra cifra distintiva), con quell’espediente retorico confidenziale “hai presente quella sensazione?” Fleabag presume che quello che le sta per succedere – una notte di sesso senza tabù con un semisconosciuto – sia molto più che la sua esperienza personale. Qualcosa di universale che riguarda tutti.
In questa scrittura emerge molto della nostra contemporaneità, della sintassi social, dove la tecnologia, i video con il Sé in primo piano sono strumenti per esporsi a un TU/VOI da coinvolgere emotivamente, da interpellare come parte di una collettività che sperimenta situazioni e comportamenti simili.
Fleabag è come se si dividesse e ci dividesse in due spazi.
Il primo spazio è quello della storia in cui le azioni succedono, il secondo è quello del discorso in cui commenta, lascia spazio ai pensieri sfacciati, ai gesti intimi con cui vuole destare la nostra attenzione. Vuole scardinare i canoni della privacy e portarci con lei nel suo letto e in bagno.
Non è voyeurismo, è complicità quella che cerca, amicizia schietta, senza giudizio. Come quella che la legava a Boo. Non è un caso che, quando va in terapia – per una seduta regalatale dal padre affettivamente coartato – si rivolge all’analista affermando: “Oh I have friends” e guardando in camera “They’re always there”. I suoi amici siamo noi. E siamo sempre lì, in quel deittico spaziale non bene identificato oltre la quarta parete.
Come in una forma di live streaming post-femminista, questa tragicomica, magnetica, dissacrante, problematica millennial ci conduce nelle sue giornate, tra la caffetteria desolata di un quartiere di Londra, il flirting ininterrotto con chiunque le passi sott’occhio, la relazione complicata con la sorella. Una quotidianità dove non è fondamentale lo sviluppo della trama, ma il procedimento euristico con cui scopriamo le sue insicurezze, le pulsioni, i suoi dolori, le perdite e il tono comico e contundente con cui li disinnesca. Robinson nel suo articolo ha definito la serie “a mental health comedy”.
Di certo possiamo affermare che Fleabag, nel suo interrompere caoticamente la narrazione, nell’incedere scattante, negli outfit cangianti, nella pretesa di attenzione da parte del pubblico, mostra i suoi tratti narcisistici ma al contempo il bisogno di amore e l’affetto autentico che prova verso quella che è un suo speculare alter ego: la sorella Claire, accondiscendente, perfezionista, affetta da disturbi alimentari, nevrotica ma funzionale in un sistema sociale stereotipizzato.
L’interpretazione magistrale di Waller Bridge va di pari passo con gli alti e bassi comico-drammatici e con l’atteggiamento sfrontato, politicamente e fieramente scorretto di Fleabag: i tagli rapidi sulle sue espressioni che favoriscono il senso di disconnessione, i veloci stacchi di montaggio legati al suo pensiero tipici di una vita multitasking, la mimica facciale che riesce a esprimere intensamente i drammi interiori vestendoli di umorismo nero e autoironia.
Quando Fleabag condivide con noi i suoi pensieri e la sua solitudine, si riduce la profondità di campo e gli altri personaggi finiscono su uno sfondo indistinto dove non possono percepire che lei sta dialogando con lo spettatore. In qualche modo noi siamo la cura per la sua fuga dai problemi, per distrarla da se stessa, ma anche la causa.
Infatti sarà solo verso la fine che, mentre affronta il dolore di un amore che non può avere, si distoglie dalla camera, come a voler prendere coscienza di se stessa, e si allontana dove noi non possiamo seguirla. In questa toccante e sovversiva conclusione, tanto compiuta quanto frammentata è la narrazione, sta il perfetto riuscito connubio tra scrittura teatrale e televisiva, tra un palcoscenico che chiude il sipario e una telecamera che spegne lo sguardo sul suo irriverente, straordinario personaggio.