Foundation, il fiore all’occhiello di Apple Tv. Ne avevamo parlato in una recensione decisamente entusiasta in tempi non sospetti e in alcuni frangenti non ci rimangiamo assolutamente nulla. Foundation rimane infatti un progetto molto ambizioso, con l’aspirazione di rendere omaggio alla più grande opera di fantascienza di tutti i tempi. Sì, perché non possiamo non dare a questa serie quantomeno il beneficio del dubbio nel momento in cui approccia uno dei grandi padri della fantascienza e la sua più monumentale opera. Il Ciclo delle Fondazioni non era mai stato portato su schermo non solo perché il mezzo e le persone non erano pronte, ma anche perché l’opera è oggettivamente molto difficile da replicare.
David S. Goyer e Josh Friedman hanno avuto un bel coraggio non solo all’idea di approcciarsi a questo colosso del ‘900 ma anche con l’ardire (assolutamente necessario, intendiamoci) di modificare così tanto del materiale originale. Anche se si avverte il profondo rispetto che entrambi gli autori hanno per Asimov – dopotutto sono entrambi amanti ed esperti di sci-fi – e chiaro che nel trasferimento da uno strumento all’altro era impossibile non perdersi qualcosa. Abbiamo già parlato in profondità di Foundation e di come essa non sia solo l’ennesima metafora fantascientifica dell’umanità che si autodistrugge ma qualcosa di più articolato, tuttavia non possiamo esimersi dal sottolineare anche il risvolto della medaglia.
Parliamo quindi di ciò che non ha funzionato nella prima stagione di Foundation, con la speranza tuttavia che questi siano solo degli snodi che possano portare a un miglioramento della serie e non alla sua cancellazione. Dopo aver aspettato tanto sarebbe assolutamente un peccato sprecare quest’occasione.
Foundation: i protagonisti
Ma partiamo dall’inizio e spieghiamo brevemente di cosa parla Foundation: in pratica narra della nascita di un piano portato avanti da studiosi, scienziati e altre menti geniali per salvare l’umanità dall’oscurantismo e dalle barbarie. Questo piano viene sviluppato dal geniale Hari Seldon, che riesce a prevedere con spaventosa precisione il lento declino dell’impero Galattico, fino ad allora considerato eterno. Il piano prevede la costituzione di una Fondazione di uomini e donne geniali incaricati di creare un’Enciclopedia Galattica del sapere umano, in modo che essa riesca a preservare la cultura quando l’Impero crollerà e l’universo conosciuto finirà nell’oscurità. Hari Seldon è riuscito a definire con assoluta affidabilità i tempi della caduta e del “periodo nero” grazie alla psicostoria, una scienza statistica che prevede i movimenti delle grandi masse nella storia.
Già da questo piccolo riassunto è facile capire perché è così complicato trasportare Foundation da libro a schermo: il ciclo di libri non è guidato da uno o più protagonisti che agiscono, ma dalla Storia con la s maiuscola che agisce attraverso i personaggi più o meno temporanei. La prima problematica era quindi quella di designare dei protagonisti veri e propri e dargli tutto un mondo di motivazioni e background con cui farci empatizzare. Foundation ci riesce in parte con alcuni personaggi (Salvor Hardin e l’Imperatore Cleon XII su tutti), meno con altri (Gaal Dornick e Hari Seledon). I primi due funzionano benissimo, complici anche due storylines interessanti e piene di azioni. Soprattutto l’imperatore (nella serie divenuto triplice) risulta essere una vera e propria sorpresa: i tre ottimi attori e la geniale idea della dittatura genetica offrono materiale a iosa sui cui lavorare e implicazioni filosofico etico-morali notevoli.
Infatti, paradossalmente sono proprio Gaal Dornick e lo stesso Hari Seldon la parte più debole in questo senso. La prima, che rappresenta una dei protagonisti e una dei primi occhi in questo mondo, si limita a essere trascinata dalla corrente e da una storyline piuttosto debole, soprattutto da quando lascia Trantor. Hari Seldon, invece, è un caso più particolare: portato sullo schermo dal grandissimo Jared Harris, una storica e leggendaria conoscenza della sci-fi, non potremmo mai dire che sia recitato male o non abbia le sue motivazioni. Il problema sta nel renderlo empatico, perché la velocità con cui spiega le sue motivazioni a una scombussolata Gaal Dornick e il suo fare sibillino non aiutano certo l’immedesimazione. A questo si aggiunge che il personaggio muore piuttosto presto e quindi la sua presenza si fa quasi spirito, avvicinandoci in modo un po’ troppo pericoloso al dominio della fede.
Qui ci colleghiamo a un altro elemento importante, anch’esso però mutuato dal materiale originale: il Ciclo delle Fondazioni è lento, a tratti lentissimo. Proprio perché non siamo di fronte a una fantascienza classica – in cui navicelle, battaglie spaziali e alieni hanno pochissimo o nessuno spazio – i tempi si dilatano e li dialoghi politici, filosofici, morali prendono il sopravvento. Questo a livello televisivo non funziona e il bisogno di mettere il piede sull’acceleratore ha anche ridotto i tempi di spiegazione necessaria a una saga così tanto complicata e a personaggi così particolari. Anche dover entrare a gamba tesa senza il tempo necessario per conoscere i nostri personaggi e farceli piacere ha inciso sui protagonisti e il nostro interesse a seguirli. Ancora una volta, l’eccezione principale è nell’Imperatore, con il quale invece abbiamo il vantaggio di poterlo analizzare nelle diverse fasi della sua vita e capirlo a fondo.
Il dilemma del tempo in Foundation
Ma il tempo in Foundation non è un problema solo per quanto riguarda la conoscenza dei personaggi e delle vicende (purtroppo uno degli elementi più negativi in assoluto è il poco tempo messo a disposizione per conoscere, capire ed apprezzare la psicostoria). Come detto, la vera assoluta protagonista del Ciclo delle Fondazioni è la Storia stessa, che quindi salta avanti e indietro senza alcun limite – semplicemente venendo filtrata attraverso gli occhi di uno o più personaggi, che in una particolare congiunzione si trovano ad avere voce in capitolo. Nel Cilo troviamo quindi numerosissimi protagonisti limitati, alcun tempo di empatizzare troppo, una storia che scorre imperterrita e la psicostoria che governa su tutto. Foundation serie ha provato lodevolmente a replicare tutto ciò, anche per poter aderire allo schema originale dell’autore, ma questo ha causato grosse problematiche di immersione.
L’esempio più lampante è quello della storyline di Salvor Hardin, quando scopre di avere un’altra origine e parte alla sua ricerca, in un viaggio che noi sappiamo già essere pieno di avventure e irto di ostacoli. Eppure questo non o vediamo, non lo vedremo mai. Stacchiamo direttamente su Gaal Dornick che, guarda caso, ritorna sul suo pianeta natale e lì ritrova una Salvor Hardin in stasi temporale da qualche secolo. Abbandoniamo così troppo velocemente e repentinamente un mondo che fino ad allora avevamo seguito e, a tratti, pure amato: la Fondazione su Terminus come l’abbiamo conosciuta sparisce e così Hugo, il padre e la madre di Salvor Hardin e le dinamiche. Idem per Gaal Dornick, della quale abbiamo la fastidiosa sensazione che abbia girato a vuoto e debba ricominciare tutto daccapo.
Un salto enorme che ci tira via dalla narrazione, dai mondi visti fino ad allora e che probabilmente non vedremo più. Questo si ripete molto, forse troppo, e ci porta spesso ad affezionarci e raffreddarci, sviluppare interesse e poi perderlo nel giro di pochissimo.
Al cuore di Foundation: grande contro piccolo
Foundation vive, in bene e in male, sulle spalle dell’eredità di Asimov. Questo è il suo beneficio e il suo fardello, perché se da una parte ha moltissimo materiale da cui attingere, dall’altra è inevitabilmente appesantita da tutto l’apparato che ha forgiato la fantascienza di mezzo secolo. La necessità di essere all’altezza e di raccontare i massimi sistemi del mondo di riferimento ha portato la serie a costruirsi attorno a promesse future e digressioni filosofiche, morali, religiose, matematiche, perdendo di vista però il fatto che una serie tv è fata di azioni e storie nell’immanente. Questo porta Foundation a essere una bella confezione, ma a perdersi la parte oseremmo dire “quotidiana” con personaggi che appunto girano a vuoto e una storia che non decolla mai del tutto se non alla fine.
Questa è purtroppo un’atra eredità della storia originale, dove il singolo ha importanza solo nel momento in cui contrasta con il modello matematico, aspetto che in un libro si può bypassare con i salti temporali, mentre abbiamo già detto che in una serie tv crea troppo distacco tra la storia e lo spettatore. Così abbiamo una Gaal Dornick che passa molto (troppo) tempo su una navicella abbandonata senza grosse cose da fare, una crisi Seldon che non solo non viene ben esplicitata ma non ha alcun carattere d’urgenza e la storyline del “Fratello Alba diverso” che non ha alcuno sbocco reale.
Eppure Foundation ha dimostrato di avere ottime idee originali che si distaccano dall’opera prima e delle occasioni di creare qualcosa di davvero molto interessante proprio nel contrasto tra il grande e il piccolo, l’universale e l’individuale.
Il finale di Foundation
E questo germe si vede proprio sul finale, dove la lunga lunghissima cottura degli eventi ci porta al nocciolo del messaggio di Foundation e tutto diventa molto più chiaro. Posto che le tre grandi storyline siano quelle di Impero, Fondazione (Terminus) e Trantor va da sé che i tre personaggi da muovere e incrociare siano Imperatore, Salvor Hardin e Gaal Dornick. Oltre ai problemi già citati su, se scomponiamo la serie e ci fermiamo ai tre protagonisti e al loro cuore, capiamo bene che due dei nodi cruciali siano da una parte la mancanza di una motivazione forte di base che li muova, dall’altra la mancanza di un messaggio da veicolare.
Il primo aspetto è debole soprattutto in Gaal Dornick, che non ha alcun vero obiettivo se non quello di seguire ciecamente Hari Seldon (anche qui, un po’ troppo veloce per una matematica avvezza al dubbio). Salvor Hardin ha uno scopo un po’ più delineato anche se un po’ troppo impartito dall’alto: se infatti risulta chiara nelle azioni la sua motivazione di proteggere la Fondazione, meno chiari sono i motivi psicologici per i quali continua a farlo anche se non crede in essa. Ancora una volta, il meglio costruito è l’Imperatore, i cui scopo sta nella preservazione dell’impero anche al costo ella repressione violenta. Azioni e psicologie sono allineate.
Per quanto riguarda invece la mancanza de messaggio, esso diventa lampante e a tratti sconvolgente proprio sul finale, quando finalmente i tre protagonisti si allineano sullo stesso orizzonte e le tre storylines convergono: mettere in dubbio le verità monolitiche, questo è forse il messaggio di fondo. Da Asimov che diceva “Prima fu la curiosità” quando si parla di umanità, non c’è da aspettarsi niente di meglio.
E finalmente nel messaggio finale le tre storie prendono un senso, il futuro dei tre personaggi si delinea con più facilità e lo spirito di Asimov viene restaurato.
C’è da chiedersi se però la fine di una stagione non sia troppo tardi per stabilire il messaggio di base dell’intera serie. Nonostante tutto però le premesse rimangono buone e, anzi, l’aver finalmente preso coraggio potrebbe essere un buon presagio per il futuro di Foundation, magari libera dai fardelli di un’eredità così pesante. Per adesso le diamo un sei politico, corroborato da una buona fotografia (che potrebbe però diventare ottima) e una buona musica, oltre che da un cast comunque solido. Attendiamo con positività la seconda stagione.