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Foundation è (solo) l’ennesima metafora di noi che ci autodistruggiamo?

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Facciamo un respiro profondo. Giuriamo che cercheremo in ogni modo di non addentrarci troppo in quell’universo sconfinato, meraviglioso e intricato che è il Ciclo delle Fondazioni da cui prende spunto la serie tv Foundation, appunto. Perché nel caso aveste vissuto sotto una pietra sino a praticamente ieri, bisogna quantomeno citare en passant il fatto che Foundation deriva da quella che oseremmo chiamare una delle – se non la – più grandi opere di fantascienza di tutti i tempi se non una delle opere più importanti del ‘900.

Scritta a partire da 1951 sottoforma di racconti pubblicati nella mitica Astounding Science Fiction, il Ciclo delle Fondazioni è a oggi una pietra miliare nella storia della sci-fi, partorita dalla mente geniale di quello che è a tutti gli effetti considerato uno dei padri della fantascienza. Isaac Asimov a quasi 102 anni dalla sua comparsa (nacque il 2 gennaio 1920) fa ancora parlare di sé per come la sua inventiva ha surclassato i suoi tempi, risultando futuristica ancora oggi. Sue sono le ormai mitiche Tre leggi della robotica che hanno in qualche modo plasmato tutta la fantascienza robotica dagli anni ’50 in poi. 

io robot

E con questo enorme carico da 90 che approda Foundation, una serie che arriva dopo dieci decenni non solo perché il mezzo audiovisivo non era pronto, ma anche perché oggettivamente il Ciclo delle Fondazioni è difficilissimo da replicare su schermo. Come il Ciclo di Dune di Frank Herbert – altro colosso della fantascienza – la materia che sta alla base delle Fondazioni è troppa e stesa su troppi livelli da poterla condensare efficacemente. Perché se alla base potrebbe esserci una storia vecchia come il mondo, un Impero che sembrava infinito ed eterno crolla lentamente sotto le spinte rivoluzionarie sia interne che esterne per lasciare il posto all’incertezza, le implicazioni abbracciano storia, filosofia, matematica e statistica, persino etica e morale.

Per questo risulta quasi impossibile risponde alla domanda del titolo senza toccare l’intera vastità della serie Foundation, né parlare di essa senza andare a sfiorare almeno in parte l’immenso lavoro di Asimov. Ma bando agli indugi, ci proveremo perché il nostro intento è comunque stimolare interesse a ravvivare quella curiosità che era tanto cara allo stesso Asimov. L’autore stesso, parafrasando una sacra frase di nostra conoscenza, disse:

In principio era la curiosità

E allora curiosità sia.

Proprio per quanto detto sopra – e perché non vorremmo annoiarvi con lo sconfinato e quasi vergognoso amore per Asimov – non staremo né a identificare le numerosissime e in alcuni casi mostruose differenze tra Foundation (che comunque si piazza onorevolmente nella nostra classifica delle migliori serie sci-fi 2021) e l’opera originale, né a fare una recensione in senso stretto della serie. Questa non è la sede adatta e crediamo ci vorrebbe quantomeno un’Enciclopedia Galattica per farlo. Parleremo però, ovviamente, della serie tv e di quello che c’è alla base. Ne scopriremo, insomma, il cuore pulsante in attesa della seconda stagione. La risposta più rapida alla domanda: Foundation è solo l’ennesima metafora di noi che ci autodistruggiamo?, sarebbe un secco, netto e anche scocciato no. Ma andiamo con ordine.

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Innanzitutto, vale la pena sottolineare che gli eroi che hanno messo mano alla penna e si sono lanciati in quest’impresa titanica sono David S. Goyer e Josh Friedman, entrambi grandi estimatori di lungo corso di fantascienza. La serie è approdata su Apple tv+ e anzi è stata confezionata per esserne chiaramente la serie di punta. Questo sembrerà un dettaglio ma non lo è, perché Foundation tenta spesso – soprattutto nella regia e nella fotografia – di cogliere la maestosità del cinema, per entrare nel solco dell’epicità sci-fi alla Star Wars o alla Dune, se vogliamo. Ci riesce in parte.

Questa ricerca di grandiosità si nota anche nella ricerca del cast, azzeccato per capacità attoriali e per caratura (soprattutto nella scelta dell’amato Jared Harris, vecchia guardia della fantascienza, per l’enigmatico Hari Seldon). Se alcune scelte di casting hanno fatto storcere il naso a quelli che assolutamente non conoscono Asimov (che mai si sarebbe scandalizzato per il cambio di sesso o etnia dei suoi personaggi), di certo non lo hanno fatto con noi: tutti gli attori, anche gli sconosciuti, sono molto bravi. Sottolineiamo soprattutto Lee Pace e Terrence Mann nei ruoli di Fratello Giorno e Fratello Tramonto, perché l’imperatore è una figura fondamentale per la Foundation serie ed è proprio da qui che vogliamo partire per rispondere alla domanda.

Foundation: La stagnazione imperiale come emblema della decadenza

Imperatore

Non è assolutamente una novità il fatto che Asimov trovò ispirazione, per il suo Ciclo, leggendo Declino e caduta dell’impero Romano di Edward Gibbon. L’idea di base dell’autore era quella di descrivere il lento collasso di un Impero considerato eterno, ambientandolo però nel futuro. E qui il parallelo tra l’Impero Romano e quello Galattico diventa ancora più pressante, quando notiamo che alla base di entrambi i declini c’è la stessa incapacità di essere flessibili ai cambiamenti che spingono dall’esterno (i Barbari da una parte, popoli della periferia dall’altro). Autodistruzione dunque? Sì e no. Potremmo parlare più di autoconservazione.

La dittatura genetica dell’Imperatore è forse l’aggiunta più interessante che Foundation attua rispetto all’opera originale, perché diventa il simbolismo (forse a volte troppo didascalico) di ciò che c’è al cuore della storia, ossia il rischio che la stagnazione e l’incapacità di mutare col tempo siano alla base dell’autodistruzione. Creando dei cloni di se stesso a diverse fasi della vita, l’Imperatore non ha solo fatto in modo di essere sempre in comando ma anche che nulla cambi davvero, dalle scelte più grandi a quelle più infinitesimali. Tutti i cloni non sono solo identici biologicamente, ma compiono gli stessi passi e gesti, vengono cresciuti allo stesso identico modo e ciò comporta la possibilità che ragionino o agiscano allo stesso modo. Eccola quindi, la conservazione massima, mantenere lo status quo dell’impero facendo in modo che tutto resti com’è.

La Fondazione: la curiosità e l’apprendimento come senso della vita

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L’abbiamo già detto, per Asimov “in principio era la curiosità”. Il fine ultimo dell’esistenza è la ricerca stessa di senso, l’interrogarsi continuamente e costantemente su se stessi, il mondo e l’universo di cui facciamo parte. Quest’aspetto nella serie va a braccetto soprattutto con due delle protagoniste: sia Salvor Hardin che Gaal Dornick sono allo spettro opposto dell’Imperatore (almeno all’inizio, perché come vedremo lui stesso non è immune al cambiamento). Ed è qui che si pone una delle contraddizioni base di Asimov: è un umanista convinto.

Ecco quindi che individualità curiose e speciali – Salvor Hardin, Gaal Dornick, ma anche Raych e Phara da un certo punto di vista – diventano fondamentali per il corso della Storia con la S maiuscola e il modo in cui essi reagiscono ai cambiamenti diventa la base stessa del piano di Hari Seldon. Perché se la sua psicostoria è la scienza che permette di prevedere i grandi movimenti della massa attraverso calcoli statistici, poi è sempre l’individuo singolo a permettere – con le sue scelte, consapevoli o meno – di mettere in moto la macchina. Lo dimostra Salvor con la risoluzione della prima “Crisi Seldon” su Terminus, ma anche il meno importante Raych, con la sua scelta di salvare Gaal Dornick.

Penso che la fantascienza sia l’unica branca letteraria di rilievo che tratta di come gli esseri umani reagiscono ad ogni cambiamento significativo del livello di scienza e tecnologia nella società. È una letteratura che punta al cuore dei nostri tempi, perché mai come ora nella storia il nostro mondo sta cambiando velocemente

Questo è quello che lo stesso Asimov diceva durante un’intervista e che dimostra quanto fosse avanti coi tempi già allora. Diventa quindi anche facile in Foundation vedere questa dicotomia tra l’immobilismo imperiale e il dinamismo delle periferie, tra la curiosità di Salvor Hardin e la paura della novità dell’Imperatore, tra l’importanza data al singolo di Gaal Dornick e la fede nella massa di Hari Seldon. Più che di autodistruzione tout court, Foundation parla del dibattito costante completamente umano tra una cosa e l’altra, tra le varie spinte propulsive che fa dell’essere umano… umano. E questo è ancora più chiaro quando vediamo l’imperatore in contrapposizione con Demerzel, l’ultima dei robot positronici del mondo asimoviano. Guidata dalla Tre Leggi della Robotica (che in Foundation per ora vengono solo intuite), Demerzel agisce seguendo la logica pura inserita nel suo DNA: proteggere l’Imperatore a ogni costo, a discapito di se stesso.

Hari Seldon e la psicostoria: l’individuo e la massa

Foundation

Abbiamo lasciato per ultimo colui che poi è l’elemento primario di Foundation, il punto di partenza dal quale si srotola l’intera storia. Hari Seldon è un matematico – più precisamente uno studioso di psicostoria, scienza da lui stesso inventata. Come abbiamo già accennato, nel mondo di Foundation la psicostoria è una scienza statistica in grado di prevedere i movimenti e i cambiamenti di grandi masse di persone (quindi, di conseguenza, di intere civiltà) attraverso lo studio di dati statistici e matematici. In questo modo, Hari Seldon è stato in grado di prevedere la caduta dell’Impero Galattico, durato circa 12.000 anni, e il conseguente periodo di barbarie di circa 30.000 anni che avrebbe visto un’involuzione umana in tutti i campi.

Hari Seldon ci dice fin da subito che non è possibile fermare l’inevitabile: ciò che deve accadere accadrà perché è scritto nei numeri. Quello che l’essere umano può fare è correre ai ripari e diminuire di molto il tempo di barbarie (da 30.000 a 1.000 anni), raccogliendo tutto il sapere umano in un’Enciclopedia Galattica che sarà poi a disposizione dell’uomo dopo la caduta dell’Impero. L’idea quindi è creare due Fondazioni – formate da matematici, storici, esperti di ogni tipo – che lavorino all’Enciclopedia da due luoghi lontani dalla capitale Trantor: Terminus e Star’s End. Il punto iniziale di Foundation non è quindi l’autodistruzione ma l’impegno umano a tenere viva la luce dell’intelletto contro l’oscurantismo.

E c’è qualcosa di davvero struggente in un’umanità che tramanda – di generazione in generazione – un messaggio fatto di speranza, luce e curiosità di un uomo che è morto anni prima su qualcosa che non è ancora accaduto.

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I più attenti potrebbero parlare di fede, i più istruiti su Asimov diranno che è assurdo visto che era un uomo estremamente laico nella sua visione del mondo. Eppure qualcosa in verità c’è: se la fede non è altro che il credere con assoluta certezza nella verità di un assunto, allora potremmo quasi dire che Foundation è l’espressione della fede di Asimov in qualcosa: fede nella scienza in quanto strumento dell’uomo per garantire la sua sopravvivenza seguendo i principi universali dell’etica; fede nell’uomo in quanto capace di sopravvivere, evolvendo attraverso la conoscenza; fede nell’individuo, pronto a infrangere le leggi morali in nome di un benessere più alto. Perché dopotutto Hari Seldon aveva previsto l’azione delle masse, non dei singoli – che continuano a sfuggirgli, ma sui quali lui continua ad avere fede che faranno sempre la scelta giusta.  

Alla luce di questo, Foundation è l’ennesima metafora di noi che ci autodistruggiamo? In parte. A noi piacere credere che sia l’ennesimo atto d’amore verso l’umanità, da sempre capace di distruggersi e rinnovarsi in un moto perpetuo, ritrovando ogni volta la propria luce che è anche quell’intuizione, quella curiosità, quella scintilla tanto cara ad Asimov.

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