Ci sono serie tv che hanno segnato, e rappresentato, intere generazioni. Pensiamo a Friends, ad esempio, la cui Reunion, realizzata nel 2021, testimonia l’enorme impatto culturale che la sitcom ha avuto sulla crescita di almeno tre generazioni di tutto il mondo. Ogni decennio ha avuto, in qualche modo, il suo fenomeno seriale capace di dare voce alla generazione di riferimento, soprattutto quelle più giovani. Ultimamente in Italia abbiamo avuto due esempi di fenomeni di cultura pop che con modi originali hanno dato voce a un sentito comune. Parliamo di Strappare lungo i bordi, una generazione di cicatrici e di medaglie, oppure la serie tv dei The Jackal, Generazione 56k, l’Italia che ci manca. Si tratta di fenomeni tutti nostrani che hanno raccontato ai trentenni (e non) di oggi un passato che li accomuna (quasi) tutti. Le cinque serie tv straniere di questa lista, invece, hanno saputo raccontare in tempo reale le gioie e i dolori della propria generazione di riferimento. Prima fra tutte Friends, in cui i protagonisti sono cresciuti in parallelo con gli spettatori. Ognuna a suo modo, le cinque serie tv su cui abbiamo voluto concentrarci hanno saputo cristallizzare in un affresco accurato la loro generazione, proiettandone i pregi e i difetti, le sfide e i sogni: vediamole insieme.
Friends (1994 – 2004)
Friends ha rappresentato con le sue dieci stagioni quell’iter di passaggio all’età adulta che tutti, chi prima o chi dopo, affrontano nella propria vita. Marta Kauffman e David Crane hanno ideato la sitcom a partire da una premessa: raccontare quel momento della vita dove gli amici sono la propria famiglia. La serie culmina, infatti, con il disgregarsi di quel gruppo simbiotico. Rachel, Monica, Phoebe, Joey, Chandler e Ross non smetteranno certo di sentirsi o di volersi bene. Il cambiamento radicale consiste nel fatto che la loro ancora di salvezza non sarà più il gruppo di amici. Ognuno di loro, nel corso delle dieci stagioni, è caduto e si è rialzato; ha pianto e riso, si è innamorato e si è lasciato; si è licenziato e ha trovato un nuovo lavoro. Per un decennio il loro punto di riferimento è stato proprio quel gruppo solido, in cui ognuno si sorregge a vicenda. Friends ha rappresentato per la Generazione X (quella nata tra il 1965-80) un compagno di viaggio in cui rispecchiarsi e con il quale condividere il fardello della crescita.
La serie ha saputo intrappolare lo spirito di un tempo. Negli anni Novanta è stata un appuntamento fisso per decine di milioni di fan, ma con il ritorno su Netflix e HBO Max, Friends è tornata a essere uno degli show più amati anche per la Gen Z. È riuscita a parlare ai Millennials e ora riesce ancora a comunicare con i più giovani perché, in fondo, racconta l’essenza stessa dell’amicizia. Qualcosa che resiste al passare del tempo e delle mode. La sitcom è ancora attuale (malgrado qualche dinamica oggi superata) perché il protagonista della storia è l’emozione. Quella che hanno vissuto i personaggi (e gli attori stessi coinvolti in quella parentesi professionale) e che è possibile percepire anche a distanza di anni. Le avventure tragicomiche dei sei amici sono state un imprescindibile momento di crescita sia per loro stessi che per noialtri. Hanno definito il loro carattere e personalità e li hanno aiutati a trovare il loro posto nel mondo. Proprio mentre lo facevamo anche noi spettatori.
Euphoria (2019 – in corso)
Euphoria è disturbante. In questo caso potremmo definirla l’anti Friends. Mentre la sitcom di Marta Kauffman e David Crane raccontava con ironia e leggerezza le difficoltà della Gen X attraverso un gruppo di amici sul finire della giovinezza, Euphoria si è fatta carico di esplorare gli aspetti più difficili dell’essere adolescenti oggi, nel secondo ventennio del 2000. Rue Bennett ha dato voce a quel malessere generazionale, immergendosi corpo e anima nel proprio pozzo nero e attraversando un cammino che può sembrare un labirinto di specchi. La Gen Z, a suo modo, sta rivendicando a gran voce il diritto di essere imperfetti, difettosi e non performanti come la società li vorrebbe. La salute mentale, ancora un tabu vissuto come uno stigma, è uno di quei temi urgenti di cui dovremmo parlare con maggiore sensibilità. Skins aveva inaugurato l’impresa, Euphoria l’ha completata, portandola a un livello ancora più profondo. Il personaggio della bravissima Zendaya non è un’eroina, non è qualcuno da emulare. Eppure è diventata la voce di una generazione.
Un punto di riferimento della Gen Z che testimonia una presa di coscienza collettiva. Perché sì, si può anche stare male. Il drama di Sam Levinson ha avuto il coraggio di affrontare delle tematiche controverse, quelle che spesso gli adulti o le figure genitoriali non riescono ad affrontare con i più giovani. Parlando proprio a questi ultimi, Euphoria permette loro di prendere coscienza di problematiche serie, come la dipendenza, l’apatia, la depressione e lo smarrimento attraverso il vissuto di un personaggio borderline. L’obiettivo però è quello di sensibilizzare, non di sconvolgere. La serie non mostra tanto dei problemi legati anche all’adolescenza, ma l’origine di essi. Cioè la mancanza di strumenti per affrontali e per imparare a fronteggiare i cambiamenti da cui deriva quel senso di isolamento; la paura di non essere compresi oppure la frustrazione di non riuscire ad aderire ai modelli prestabiliti, irraggiungibili, e ai ruoli sociali, ormai impraticabili. Euphoria è l’urlo della Generazione Z che, purtroppo, molti adulti ancora non vogliono ascoltare.
Beverly Hills, 90210 (1990 – 2000)
Beverly Hills, 90210 è un cult degli anni Novanta che, in un modo o nell’altro, si è imposto come un fenomeno di costume pop. Mentre Euphoria, con un realismo disarmante e crudele, racconta i problemi invisibili dell’adolescenza, Beverly Hills, 90210 ha dato sostanza a quelli che erano i sogni degli adolescenti dell’epoca. Kelly Taylor, Donna Martin, Dylan McKay, Brenda Walsh e gli altri personaggi incarnano quello che i giovani volevano (o non volevano) essere. Tori Spelling, Ian Ziering o Luke Perry e gli altri membri del cast erano venerati come divinità, la cui immagine tappezzava le camerette di mezzo mondo. Il teen drama di Darren Star – il quale poco più tardi svilupperà un altro cult: Sex and The City – è volutamente irrealistico e patinato. Eppure era la prima volta che un gruppo di ragazzi, alle prese con le problematiche adolescenziali, diventavano i protagonisti assoluti del piccolo schermo.
Sono gli anni del liceo e, sebbene la serie racconti le peripezie, i drammi e gli ostacoli di uno spaccato sociale prevalentemente privilegiato, era comunque possibile riconoscersi in quelle dinamiche sociali. Precursore di teen drama altrettanto iconici come Dawson’s Creek, The OC, Gossip Girl, Buffy The Vampire Slayer, quello con il compianto Luke Perry ha segnato un’epoca e ha reso immortale un sogno. Beverly Hills, 90210 è stato portatore sano di desideri nuovi, di storie d’amore intense che superavano perfino le differenze di ceto sociale o di aspetto estetico. Ogni personaggio era definito da personalità ben riconoscibili, quasi archetipiche, al punto da dare vita a un simbolismo di riferimento per le generazioni future (e che oggi percepiamo come stereotipato). Potevamo riconoscere la ragazza della porta accanto, il bello e dannato, la studiosa, l’ordinario e così via. Beverly Hills, 90210 è l’antesignano del concetto di virale e di influencer – innescando in noi quel desiderio di “wannabe” – ed è stato un fenomeno di massa capace di accumunare i teenager degli anni Novanta e non, dando corpo ai loro sogni e alle loro aspirazioni.
Girls (2012 – 2017)
Decisamente meno noto rispetto a Friends e a Beverly Hills, 90210, Girls è la risposta dei Millennials ai sogni alimentati da quei fenomeni pop degli anni Novanta, a partire da Sex and The City. Le peripezie e i drammi di Brenda, Dylan, Carrie Bradshaw o Rachel di Friends, agli occhi delle quattro protagoniste di Girls, sembrano una passeggiata rinfrescante e il confronto con la realtà feroce con cui devono scontrarsi diventa straniante. Poco più che ventenni, Hannah e le sue amiche avvertono una frattura tra quello che hanno sognato e quello che stanno vivendo. Così cercano di dare un senso come possono a ciò che la vita ha in serbo per loro. Quattro persone diverse che non sono, e non vogliono più essere, un archetipo per nessuno. Non è richiesta l’immedesimazione. Girls non è un fenomeno “wannabe“, è uno schiaffo disilluso, il primo di una lunga serie. Quei sogni che avevano coltivato durante la loro adolescenza, ora, si stanno sgretolando uno a uno come statuette di sabbia. E questo le fa arrabbiare.
Quelle quattro ragazze incarnano tutto quello che non vorremmo mai essere e che, allo stesso tempo, potremmo essere. Il drama HBO è uno dei primi resoconti autentici, e in tempo reale, dei Millennials e delle loro contraddizioni. Le protagoniste non compiono un percorso di riscatto e di evoluzione verso la forma migliore di loro stesse. Le quattro antieroine crescono, ma la loro sembra più un’involuzione verso atteggiamenti odiosi, insopportabili e solipsistici. Girls non è un inno all’amicizia, come Friends: è un ritratto lucido della complessità dei rapporti umani, imperfetti e disordinati. Perché le persone, anche i nostri amici, possono essere crudeli. E anche noi possiamo esserlo. A malincuore impareranno che crescere fa schifo e non è un percorso accidentato verso un traguardo luminoso. Creata da Lena Dunham e prodotta da Judd Apatow per HBO, la sua protagonista, Hannah Horvath – la stessa Dunham – nel Pilot dichiara di essere la voce della sua generazione… o almeno una voce. Quel “almeno” incerto ha toccato un nervo scoperto. Girls ci irrita perché forse riusciamo a sentirla davvero la voce incerta di quella generazione.
I think that I may be The Voice of My Generation… or at least a voice of a generation.
Hannah Horvath, Girls – Pilot
Happy Days (1974 – 1984)
Chiudiamo questa piccola panoramica di cinque serie tv che hanno saputo raccontare una generazione con Happy Days. Sebbene la serie tv con Ron Howard sia stata realizzata tra gli anni Settanta e Ottanta, la vicenda della famiglia Cunningham è ambientata tra gli anni Cinquanta e Sessanta, appunto nei “giorni felici”. Happy Days mette in scena il modello dell’American Way of Life, l’idillio e il sogno americano incarnato da un’epoca d’oro ricordata come luminosa e prospera. Un ricordo edulcorato, certo, perché dietro lo scintillio dei jukebox e della brillantina si nascondevano due conflitti bellici: la guerra di Corea (1950 -53) e quella del Vietnam (1955 – 75).
Happy Days nasce quindi in un contesto socio-culturale affaticato, post bellico e pieno di contraddizioni. Il ricordo di quei giorni felici, di quell’epoca d’oro, diventa così un morbido rifugio. La sitcom di Garry Marshall coltiva il ricordo di uno stile di vita spensierato. Un po’ di meritata leggerezza perché in tv non poteva esserci spazio per la negatività. Richie incarna quel bisogno di volti positivi, sorridenti, sinceri e incoraggianti. Le avventure che vive insieme ai suoi amici – Potsie e Ralph – seducono lo spettatore con quell’immaginario luccicante e mitico. Lo avvolgono con quelle storie di amicizia e amore, le feste, le uscite e le serate al cinema. Fonzie, invece, era la guida esperta che tutti avrebbero voluto avere al proprio fianco durante il percorso di crescita. Il mito degli anni Cinquanta, del resto, è stato a lungo usato come un rifugio dalle bruttezze della realtà, basti pensare a Grease del 1978. Happy Days non racconta una generazione, ma ne proietta i bisogni, i sogni e la speranza di vivere giorni più felci. Un’accezione quasi beckettiana.
Friends, Girls, Happy Days e le altre serie tv di questa lista hanno segnato la loro generazione. Sebbene siano molto diverse tra loro, quasi antitetiche, sia per fama, impatto generazionale che genere hanno saputo dare voce a sogni e bisogni. Ognuna a suo modo, hanno saputo cogliere l’essenza della propria generazione e immortalarla in una sequenza di frame che continueremo a vedere e rivedere per molto tempo.