C’è un grande, terribile amico che ha sempre accompagnato Matthew Perry. Lo ha affiancato da quando era appena un neonato e ha provato a non lasciarlo mai. Gli ha sussurrato dolcemente parole di conforto, ha allontanato la sua solitudine e le sue sofferenze, gli è stato vicino sempre. Un grande, terribile amico. Lo avremmo voluto noi come amico, Matthew Perry, e lo abbiamo, di fatto, avuto. Perché attraverso Friends abbiamo conosciuto Chandler e abbiamo conosciuto Matthew, due profili dello stesso volto, dello stesso introverso ragazzo che si nasconde dietro un’ironia pungente e dissacrante. Avremmo voluto che lo sapesse anche lui che non era solo, che non aveva quell’unico, terribile amico con sé ma anche tanti, sinceri amici.
Non sappiamo se si sia mai davvero reso conto di non essere solo nel corso di un’esistenza fatta di montagne russe da cui soltanto a tratti è riuscito a tirare il freno, riprendere fiato e provare a scendere.
Di certo, per lunghi, interminabili momenti ha creduto di avere un solo terribile amico. Un amico di vecchia data che gli ha sempre dato certezze che credeva incrollabili. È stato difficile separarsene perché a lui deve tanto (apparente) sollievo. Ha appena pochi mesi di vita quando iniziano pesanti e continue crisi di pianto: sembra inconsolabile. I dottori non sanno esattamente cosa fare, brancolano nel buio. È semplicemente un “colicky baby“, un neonato con il chiaro sintomo del pianto ma non chiare ragioni mediche. Alla fine, nell’esasperazione generale, a Matthew vengono prescritti barbiturici, farmaci per lo più sedativi e antidepressivi che possono causare dipendenza tanto fisica quanto psicologica.
Le crisi di pianto continuano, eccetto quando assume i farmaci: in quei momenti il bambino cade in un confortevole, profondo sonno. È il primissimo incontro con il grande, terribile amico. Il primo atto di un rapporto che lo porterà, via via più consapevolmente, a soffocare le sue sofferenze, ad anestetizzarle piuttosto che affrontarle e superarle. Ha un anno quando i genitori si separano. La sua infanzia trascorre in Canada, in particolare a Ottawa. La madre è assente per la maggior parte del tempo e Matthew si sente solo e abbandonato. Con sé ha solo il grande, terribile amico e se stesso. Quando la mamma, portavoce del primo ministro canadese, torna a casa, a tarda sera, stanca e stressata, Matthew prova a guadagnarsi come può le sue attenzioni. Per farlo si ingegna in scherzi, battute, capitomboli e giochi di parole. È l’unico modo per vederla sorridere, per rosicchiare del tempo con lei. La risata per Matthew Perry è il miglior amico possibile.
Dietro quella comicità, dietro il suo arlecchinesco sorriso prova a nascondere la solitudine e la sofferenza di figlio abbandonato. “Nella sua vita ne ha passate più di chiunque altro ma non ha mai perso il suo spirito allegro“, diranno poi i suoi amici di infanzia, due ragazzi, attratti, come tutti, dall’irresistibile comicità di Matthew Perry. È così che nonostante un carattere paradossalmente introverso Matthew riesce a fare conoscenze. Gira in bici tra le campagne di Ottawa con Cristopher e Brian, tutti e tre cantando a squarciagola la sigla di Agenzia Rockford, detective drama degli anni Settanta. Nel farlo assume un fare buffonesco e pronuncia le parole con una cadenza tutta sua che fa morire dal ridere i suoi compari.
A vederlo girare lì, con la sua bici e le sue smorfie, lo avremmo riconosciuto subito.
Perché Matthew non ha mai cambiato il suo modo di fare, la sua fanciullesca solarità, la sua irriverente comicità. Anzi, nel tempo ha custodito questa sua personalità, proteggendola come il più caro degli amici. Quell’infanzia in parte bruciata se l’è portata con sé, sempre. L’ha voluta vivere ogni anno della sua vita, perché Perry aveva capito che era il solo modo che aveva per contrastare il male che sentiva dentro. Sapeva che poteva soltanto riderne. Ma il male era lì.
Nascosto dietro i lazzi e le risate, il suo picaresco modo di stare al mondo tradiva l’estrema sensazione di abbandono che sentiva in sé. Ed è allora, in quei momenti di sconforto, che vede un grande, terribile amico accanto a sé. Ha solo dieci anni quando, come ogni bambino in cerca di attenzioni, inizia a manifestare aggressività e intemperanze. Ruba, fuma, va male a scuola e finisce addirittura per picchiare Justin. Non un Justin qualunque ma Justin Trudeau, il futuro primo ministro canadese ma allora semplicemente figlio del politico che forse inconsciamente Matthew accusava per l’assenza di sua madre. Era il suo modo per punire il mondo per averlo abbandonato.
A tredici anni cede finalmente alle lusinghe del terribile amico. Inizia a bere. Non sono le semplici bravate di un minorenne. No, è molto peggio. Si scola birra economica e vino dell’Ontario e di colpo sente di essere tornato bambino, di rivivere quella confortevole sensazione di stordimento e torpore di quando era appena un neonato che d’improvviso vedeva la sua sofferenza scomparire. “Non esisteva più nulla di male, le liti con mia madre, essere e sentirmi solo, nulla di nulla: mi ritrovavo a guardare le nuvole mentre il mondo scompariva e mi sentivo benissimo“. Il grande, terribile amico.
Matthew Perry scopre così di avere due modi (e due amici) per affrontare la solitudine: la risata e la bottiglia.
Con il suo humor ottiene quell’attenzione tanto agognata. Trasforma questa dote in una vera arte: quel modo di parlare cadenzato e sarcastico, con continue interrogative retoriche diventa un suo marchio di fabbrica, il tratto distintivo e più amato tra i suoi coetanei. Ma la solitudine non l’abbandona: da quando ha cinque anni viaggia, nell’indifferenza generale, come minore non accompagnato andando a trovare ripetutamente il padre, attore, trasferitosi a Los Angeles.
È così che matura la ferma, incrollabile convinzione che per scacciare quel senso di fatale isolamento che lo svuota dal didentro debba fare solo una cosa: diventare famoso. “Ne avevo bisogno, era l’unica cosa che mi avrebbe ‘aggiustato’: ne ero certo“. Non sarebbe mai più stato solo ma sempre circondato da fedeli amici. A quindici anni fa armi e bagagli e raggiunge il padre convinto che la fortuna gli arriderà. Otterrà la fama, lo sa per certo, diventerà un grande… tennista. A Ottawa era tra i migliori in questo sport, si imponeva senza fatica tra i coetanei, ma a Los Angeles le cose cambiano: diventa solo uno tra i tanti. Bravo, certo, ma non al livello dei più talentuosi. Per lui è una cocente delusione.
Si indirizza perciò sulla recitazione. In fondo, ha sempre interpretato una parte, no? E poi sa far ridere, è bravo con le parole, è sciolto: perché non provarci? Ottiene alcun ruoli in sitcom minori finché non gli capita sotto mano un copione particolare. Leggendolo Perry trasecola: è come se lo avesse scritto lui. Rivede i suoi modi di fare, la sua ironia, i giochi di parole. “Un personaggio in particolare ha colpito la mia attenzione. Non ho mai pensato di poter interpretare Chandler. Io ero Chandler“. Matthew si precipita all’audizione e fa tutto quello che un attore non dovrebbe fare a un provino: non legge dal copione, altera le battute, dà una strana enfasi laddove non dovrebbe esserci.
La sua è una cadenza particolare, un tono sarcastico e retorico insieme, che si alimenta di inusuali alterazioni fonetiche.
Marta Kauffman, la co-creatrice di questa serie dal titolo provvisorio di Friends Like Us, è senza parole. Nessun altro attore alle audizioni l’aveva fatta ridere tanto. La parte è sua. C’è però un problema: Perry è sotto contratto con un’altra serie, un’impresentabile comedy sci-fi, LAX 2194. Aveva accettato la parte perché completamente al verde ma ora impazziva all’idea di non poterne uscire. Per sua fortuna qualcuno della Warner Bros. accorgendosi del valore infimo dello show dà il via libera a Crane e Kauffman: “Questa serie non andrà da nessuna parte, prendetelo per Friends, va bene così“. È la svolta.
La serie in un lampo diventa un successo planetario e Matthew si ritrova inondato di soldi e fama. Non solo: è anche circondato da ottimi amici. L’atmosfera nel cast è unica, una chimica mai vista. I sei attori protagonisti sono legati da un’affinità esplosiva anche fuori dal set e il loro rapporto continuerà per decenni. Courtney Cox, la sola già famosa, al primo giorno di riprese fa un discorso chiaro: “Qui non ci sono star, è una serie corale, dovremmo essere tutti amici“. E così è. Friends. Matthew ha finalmente ottenuto tutto quello che desiderava. Eppure, qualcosa non va. “Penso che tu debba realizzare tutti i tuoi sogni per capire che sono sogni sbagliati“, dirà poi Perry. Già, perché nonostante tutto continua a sentire dentro di sé quel male, quella solitudine che pare incolmabile. E allora ecco che tra tanti amici, accanto a lui torna prepotentemente a farsi largo il grande, terribile amico.
Assume vodka, Vicodin, Xanax, ossicodone. “Fingevo dolori, emicranie, vedevo otto dottori alla volta. Prendevo cinquantacinque Vicodin al giorno“. Arriva perfino a presentarsi agli open day di case in vendita per rubare medicinali dai bagni. “Chi penserebbe mai che li ha rubati Chandler Bing?“. Matthew non ama le feste, vuole solo sedersi sul suo divano, prendere cinque Vicodin e guardare un film nell’assenza totale di dolore e ansie. Finisce in rehab per dipendenza da Vicodin due volte, nel 1997 e poi di nuovo nel 2001. Alla fine dei conti avrà speso qualcosa come nove milioni di dollari dietro alle sue dipendenze.
Intanto il successo di Friends prosegue incessante.
Marta Kauffman si affida a lui per guadagnarsi una guest star speciale: Julia Roberts. Sa che la verve comica di Perry può convincerla a partecipare allo show. Matthew le manda un biglietto: “La sola cosa più eccitante della prospettiva di vederti nella serie è che finalmente ho una scusa per mandarti dei fiori“. Inizia così una pazza corrispondenza per fax che si conclude con la Roberts che accetta di figurare in Friends e di uscire con Matthew. È l’inizio di una breve storia troncata dallo stesso Matthew Perry. Anche allora, con un amore al suo fianco, il suo grande, terribile amico non vuole abbandonarlo, quasi geloso di non essere da solo. “Perché? Perché non riesci a smette di bere?“, si domanda Matthew. “Julia Roberts è la tua ragazza! Perché non ci riesci? Qual è il problema?“.
Beve, beve continuamente nella speranza che quello che la fama non ha aggiustato possa aggiustarlo il suo grande, terribile amico. Mai sul set però: a volte è in post sbornia ma mai ubriaco. Fuori dal palco intervalla momenti di sobrietà a nuove ricadute. I suoi colleghi e amici di Friends vedono e soffrono con lui. Alla fine Jennifer Aniston decide di prenderlo in disparte: “Sappiamo che hai ripreso a bere, sentiamo l’odore“. Quella prima persona plurale, quel ‘noi’ per nulla sottinteso, «È stato devastante». Ma anche allora Jennifer, Lisa, Courtney, David e Matt gli stanno al fianco, gli fanno sentire che saranno sempre lì per lui. I’ll be there for you.
Alla fine della settima stagione di Friends, al culmine emotivo, nel momento più importante per Monica e Chandler, quello del loro matrimonio, Matthew sta vivendo un nuovo inferno. Sembra incredibile pensare che nell’esatto momento in cui guardavamo due persone così felici, unite e in pace l’attore che ne interpretava una attraversasse uno dei momenti peggiori della sua vita. Concluse le riprese Matthew sale sul camion di un tecnico del set e si fa portare a un centro di riabilitazione. Inizia allora uno dei periodi di più lunga sobrietà, che lo accompagna per tutta la nona stagione. Quando Friends finisce, però, Perry non prova nulla. “Non so se per via della buprenorfina (un oppioide usato per curare la dipendenza) o perché fossi davvero morto dentro“. Matthew si scopre senza più un lavoro, privo di qualcuno di importante nella sua vita e con i suoi colleghi già indirizzati verso altri progetti. Accanto a sé si riaffaccia per l’ennesima volta il suo inseparabile, terribile amico.
Finisce ai margini dello star system: i film a cui partecipa o sono flop o vengono cancellati.
Non c’è una nuova Friends per lui. Prova allora a reinventarsi in ruoli drammatici e come sceneggiatore ma anche qui con alterne fortune. Per Matthew non è un problema: sa che un nuovo successo non riempirebbe comunque il vuoto che è dentro di lui. È il 2018 quando la situazione precipita: ha una perforazione del colon dovuta all’abuso di oppioidi. Dopo sette ore di intervento i medici comunicano alla famiglia che ha solo il 2% di possibilità di superare la notte. Ce la fa, reagendo con una forza insperata, ma rimane in coma due settimane. Gli serviranno cinque mesi in ospedale e nove di colostomia per uscirne.
Ma non basta neanche questo per allontanarlo dal terribile amico. Due anni dopo, ancora in balia di dolori insopportabili, viene sottoposto a un nuovo intervento ma la notte prima dell’operazione assume l’idrocodone che, in combinazione con l’anestetico, gli fa fermare il cuore per cinque minuti. Sembra la fine stavolta, e invece incredibilmente torna in vita. Ha nove costole rotte a causa del disperato massaggio cardiaco che gli è stato fatto ma è vivo. Si trova però costretto a rinunciare al film per cui aveva già girato una scena: Don’t Look Up di Adam McKay, pellicola che ottiene un successo clamoroso e, chissà, avrebbe potuto rilanciarlo. “Ma ho imparato una lezione: potevo ambire a un grosso progetto senza fare il buffone“.
Stavolta la dottoressa è molto dura con lui: se continuerà con le droghe dovrà tenere a vita una sacca per colostomia. La minaccia funziona. Matthew Perry inizia un difficoltoso ma stavolta efficace percorso che lo porta ad allontanarsi dal suo grande, terribile amico. Per la prima volta inizia a porsi le domande giuste, prova ad analizzare le ragioni che lo spingevano a cercare le droghe. Butta tutto su carta, esteriorizza i suoi pensieri e la sua storia. Inizia a guardarla dall’esterno, a elaborarla e quindi a capirla. Ora conosce le ragioni delle sue dipendenze. Continua a scrivere e decide su spinta della sua manager di pubblicare tutto: ne esce una toccante biografia pensata per aiutare se stesso ma anche e soprattutto gli altri: Friends, Lovers, and the Big Terrible Thing.
Dopo aver passato più di metà della sua vita in cura, aver subito svariati interventi e perso tutti i denti semplicemente addentando un toast, Matthew Perry vede la luce.
Eppure, quando nella sua autobiografia si trova a dover fare il punto della sua vita, riaffiorano vecchi fantasmi. “Sono seduto in una grande casa, ammirando l’oceano, con nessuno con cui condividere questa vista, eccetto un tutor di sobrietà, un’infermiera e un giardiniere due volte a settimana“. È probabilmente lo stato d’animo in cui galleggia quel maledetto pomeriggio, quando si rilassa in acqua, nella sua solitudine, ora che anche il suo grande, terribile amico non è più con lui. Cade nel torpore, in un confortevole, profondo sonno, stavolta per sempre, stavolta senza aiuti. E la speranza è che in quell’ultimo momento Matthew Perry abbia capito di non essere mai stato davvero solo e che non lo sarà mai. Per sempre Chandler Bing, per sempre Matthew Perry. Nostro grande, terribile amico.
Emanuele Di Eugenio