“Nathan had a theory about this place. If we tried to leave, if we pushed too hard, then something would push back” (Sara in From).
Il concetto di luogo può essere spesso dato per scontato, facendo parte degli automatismi esistenziali con cui quotidianamente ci confrontiamo, senza darci troppo peso. Ma quando il luogo diventa una trappola, un enigma, un paradosso fisico, allora sì che torna rilevante il “dove siamo?“. From, una serie che fa del connubio tra il mystery e l’horror il proprio fil rouge, solleva in realtà quesiti di matrice filosofica e antropologica, le cui risposte forse permetteranno di comprendere cos’è questa località da cui i personaggi non possono fuggire.
Partiamo dalle etimologie.
Guardando From, una parola rilevante, parte del nostro vocabolario di ogni giorno ma in realtà originata in maniera molto differente dal suo significato odierno, è senza dubbio “utopia“: dal greco, utopia significa non (οὐ) luogo (τόπος) ed era tendenzialmente intesa come espressione di un un luogo immaginario che non può esistere, che nega se stesso nella stessa eventualità di esistenza. Tuttavia, la contaminazione con l’omofono inglese eutopia (da εὖ, buono, e τόπος, luogo) ha nel tempo creato un nuovo significato di utopia, e cioè un luogo buono, bello, immaginario perché troppo perfetto: del resto, l’opera di Thomas More arriva proprio a tale conclusione partendo dalla parola utopia. Per From e per i nostri fini, invece, vogliamo restare fedeli all’etimologia di utopia. Il luogo in cui i protagonisti arrivano e da cui non possono andare via sembra a tutti gli effetti un grande buco nero in cui si rischia di finire, provenendo da ogni parte degli Stati Uniti. È un luogo che c’è, sicuramente, ma che in un certo senso non c’è. Un non luogo in cui, come in una realtà separata, si concentra il Male e nel quale i sopravvissuti provano a convivere e soprattutto a cercare di comprendere dove sono per poter andare via. Non è assurdo affermare che il concetto di “luogo” utilizzato dal creatore di From John Griffin deve molto a quello che Abrams e Lindelof introdussero per Lost: un posto, l’Isola come Fromville, contenitore del Male, un posto capace di esserci come di non esserci al contempo, quasi in ossequio del principio del gatto di Shrödinger.
Il punto è che, in From, sembra difficile concepire questo luogo come completamente slegato da tutti gli altri luoghi che compongono il mondo. Non ne sono chiari i confini, innanzitutto. Inoltre, antropologicamente parlando, si può prendere in prestito il neologismo creato dal sociologo Marc Augé negli anni Novanta per cercare di capire cosa vuol dire “relazione” tra il luogo e i protagonisti: Augé parla di “nonluogo“ con riferimento a tutti quegli spazi che non hanno la prerogativa di essere identitari e relazionali e quindi, in altri termini, quei luoghi che non instaurano un rapporto socialmente rilevante con coloro che li frequentano. Mezzi di trasporto, supermercati, sale d’attesa, ascensori sono tutti esempi di nonluoghi. È evidente, a parere di chi scrive, che il luogo di From possa sfiorare questa definizione senza abbracciarla del tutto: anzi, in un certo senso, si potrebbe dire ogni personaggio abbia una specifica relazione con l’intera località, veicolata dal paranormale. Potrebbe essere un nonluogo il diner, come anche la piccola clinica, eppure sembra altrettanto chiaro che questi posti abbiano un significato specifico per i personaggi (ad esempio la clinica è diventata, per Kenny, il posto in cui il padre è stato assassinato) e non possano, pertanto, essere svuotati del loro peso relazionale con gli esseri umani che li vivono. Per questo, accogliendo le critiche ad Augé di altra parte della dottrina sociologica, potrebbe essere interessante applicare a From un altro concetto, quello di eterotopia.
È stato Michel Foucault a coniare il termine a metà del secolo scorso, con esso indicando “quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano“. Un esempio classico di eterotopia è lo specchio, che attraverso il riflesso crea uno spazio irreale in cui non ci siamo veramente, ma che al contempo esiste fisicamente in un luogo ben preciso (ad esempio la propria camera da letto). Questa definizione sembra ricordare qualcosa.
Si potrebbe dire che il luogo di From altro non è che un luogo che sospende i rapporti di esistenza con gli altri spazi (ad esempio le diverse strade statunitensi da cui giungono tutti i protagonisti) ma al tempo stesso ne rappresenta il loro fulcro di connessione? Se così possono essere interpretate le cose, e ci piace pensare che possa essere così, la località in cui tutti i personaggi sono intrappolati in From è un’eterotopia.
In questo senso le stesse parole di Foucault (in Le parole e le cose: Un’archeologia delle scienze umane) ci vengono in soccorso e ci permettono di capire perché, seppur Fromville non sia un’utopia, sia fondamentale partire da quel concetto per comprenderne quello contrapposto:
“Le utopie consolano; se infatti non hanno luogo reale si schiudono tuttavia in uno spazio meraviglioso e liscio; aprono città dai vasti viali, giardini ben piantati, paesi facili anche se il loro accesso è chimerico. Le eterotopie inquietano, senz’altro perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i luoghi comuni, perché devastano anzi tempo la «sintassi» e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma quella meno manifesta che fa «tenere insieme»…le parole e le cose. È per questo che le utopie consentono le favole e i discorsi: si collocano nel rettifilo del linguaggio, nella dimensione fondamentale della fabula; le eterotopie (come quelle che troviamo tanto frequentemente in Borges) inaridiscono il discorso, bloccano le parole su se stesse, contestano, fin dalla sua radice, ogni possibilità di grammatica, dipanano i miti e rendono sterile il lirismo delle frasi“
L’utopia è una favola, l’eterotopia può essere un incubo. Per Foucault la nave era l’eterotopia per eccellenza: connessione di ogni luogo possibile al suo interno (per le vite che trasporta, per le attività che possono svolgersi) e all’esterno (per tutti i luoghi che può raggiungere attraverso la navigazione). Per noi, nel nostro piccolo, il luogo di From può essere l’eterotopia che connette non solo i luoghi senza esistere in un posto preciso, ma che connette tutti i personaggi al (non) luogo stesso e intrinsecamente alle loro stesse vite.
Alessandro Fazio